A Barcellona vince l'orgoglio nerazzurro: una giornata da ricordare per ogni atalantino

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Barcellona (Spagna). Erano poco meno di tremila contro circa cinquantamila sostenitori di casa, ma si sono sentiti quasi sempre solo loro. Perché per un tifoso sentire l'orgoglio per la propria squadra è la cosa più bella che ci sia: non ci sono dubbi che tutti i nerazzurri arrivati a Barcellona lo possano essere di questa straordinaria Atalanta.

 

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Tornano a casa col sorriso, in un giovedì di rientro praticamente per tutti: quelli arrivati in aereo, tra i charter (tre) e i numerosi voli di linea con destinazione Orio e Malpensa, e quelli arrivati in pullman (una quindicina), dopo un viaggio prevalentemente notturno di circa 14 ore, la più classica delle sfacchinate. L'idea comune però è la stessa: ne è valsa la pena. Eccome.

Perché c'è il pallone, ma c'è anche una giornata da vivere in città. Sotto il sole mattutino è il momento per le visite a Casa Battlò, le tappe alla Sagrada Familia, poi cerveza, tapas e paellas in abbondanza sulla Rambla e nei ristoranti sul lungomare. In attesa del passaggio – non obbligatorio – vicino all'arena, un tempo sede della corrida, a una ventina di minuti a piedi dallo stadio del Montjuïc. Sciarpe nerazzurre si mescolano a quelle blaugrana in un clima di festa: ci sono atalantini da tutta Italia e da ogni parte d'Europa, compresa una delegazione da Madrid. Spagnoli, ma appassionatisi all'Atalanta dopo una visita al Gewiss Stadium ormai dieci anni fa.

Un corteo di circa 150-200 ultrà si stacca percorrendo una strada diversa arrivando direttamente dal centro, scortato da numerose camionette della polizia, mentre il resto del fiume nerazzurro inizia la salita attraverso il museo di arte moderna che domina la collina, un belvedere sulla città che si accende mentre il sole cala. L'ingresso del settore ospiti, al quale si presentano anche alcuni tifosi non muniti di biglietto, finisce per essere presto congestionato: alle 19 l'apertura delle porte e la "piccionaia" inizia a riempirsi, mentre il resto dello stadio si tinge di blaugrana.

 

 

L'atmosfera non è da Champions, e va detto: chiaro, non è il Camp Nou, non è la vera casa dei Culé, ma si percepisce un certo distacco degli spettatori (nel senso stretto della parola) a cui a Bergamo, ma in generale in Italia, non siamo abituati. Questioni evidentemente culturali e soprattutto di caratura, che poi è lo stesso motivo per cui come club il Barcellona sopravvive ancora nonostante centinaia di milioni di debiti sulle spalle. "Too big to fall" dicono nella finanza, 'troppo grande per cadere'.

La guerra contro l'Uefa per la creazione della Superlega nasce proprio da qui ed è ancora fresca: si vede con la velocità con cui tutti i loghi della federazione vengono rimossi al termine delle matchday operations. Durante la riproduzione dell'inno della Champions, con le squadre schierate in campo, piovono fischi, mentre dal settore ospiti si alza forte il grido "the champions" per suonare la carica. Lo stadio diventa teatro, non fosse per alcuni cori per i singoli giocatori e l'inno cantato da tutto il pubblico. Ci sono standing areas, ma di fatto nessuno sta in piedi: tutti seduti.

Discreti boati ai gol, questo si, ma in proporzione niente a che vedere con il tripudio bergamasco quando Ederson e Pasalic battono Szczesny. È l'orgoglio che emerge. Invece i 'tifosi' di casa si distinguono più che altro per dei vergognosi (e non proprio isolati) fischi a Scalvini durante la sua uscita in barella, fortunatamente presto coperti dagli applausi di incoraggiamento. Il risultato finale è di 2-2, ma per ogni atalantino e per ogni bergamasco vale come una vittoria.

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