IL CALCIO SI SALVA TENENDO INSIEME, NON SEPARANDO

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(di Filippo Galli, da filippogalli.com) – Tecnica contro tattica, singoli contro collettivo, tradizione (presunta) contro innovazione sono contrapposizioni inesistenti. Il calcio italiano non si aiuta continuando nell'errore di separare quello che nella pratica è unito: un flusso ininterrotto di azioni e reazioni che si allenano nella realtà, non isolando gli elementi.

Dopo la disfatta della Nazionale maggiore a Euro 2024, in molti si stanno cimentando sull'argomento del giorno: come può ripartire il calcio italiano? Una delle risposte, forse la più intuitiva, è "dai settori giovanili". Ho letto e ascoltato molto e vorrei provare a dare il mio modesto contributo di ex-calciatore, di ex-responsabile del settore giovanile di un grande club, ma soprattutto di persona appassionata che ha studiato il fenomeno anche osservando da vicino, con occhi e mente aperti, le migliori realtà internazionali.

TECNICA CONTRO TATTICA?

"Troppa tattica, torniamo alla tecnica", sembra essere il nuovo mantra dei rifondatori del calcio. Una visione che replica l'errore di separare quello che nella realtà è unito in un flusso continuo di stimoli esterni cui il calciatore risponde (o che addirittura prova ad anticipare). Provo a spiegarmi ancora meglio: la tattica permette al giocatore di scegliere tra le diverse soluzioni che ha a disposizione; e la scelta fatta ha bisogno di uno o più gesti tecnici – a volte contemporaneamente – per essere applicata. In altre parole, la tecnica in sé non è un fine e non è la soluzione: è uno strumento per risolvere le situazioni di gioco in campo. Se continuiamo a separare la tecnica dalla tattica, torneremo sempre al punto di partenza, cioè attardati rispetto ai movimenti calcistici più virtuosi.

FARE LE "COSE SEMPLICI"?

Mi è capitato di leggere recentemente (non importa chi lo ha detto: vorrei parlare di idee e non di persone) che "non ci sono centravanti perché non si insegna a fare il 9, a tirare in porta, ma a far salire la squadra, a dialogare con la mezzala". Siamo sicuri? Nelle scuole calcio, nei settori giovanili – professionistici e non – continuano a proliferare muretti, paretine, forche e allenatori che passano la palla con le mani al giocatore che la deve restituire con l'interno piede, il collo piede e via dicendo. Siamo ancora in un pensiero per cui si pensa che per imparare un gesto tecnico lo si debba riprodurre all'infinito fuori dal contesto del gioco. Quindi allenare i nostri ragazzi al tiro in porta fuori dal contesto di gioco ci autorizzerebbe a pensare che i centravanti diventeranno più prolifici? Di nuovo, invito a ragionare: il calcio è uno sport collettivo, associativo, non individuale. E dubito fortemente che i grandi attaccanti del passato non abbiano mai considerato l'essere parte di una squadra.

Lo stesso, identico discorso vale per i portieri, che secondo alcuni, in nome di una non precisata "purezza" del ruolo, dovrebbero tornare a parare, non a giocare con i piedi e addirittura a impostare dal basso: in realtà il portiere della Nazionale, il migliore dei nostri e fra i migliori in assoluto a Euro'24, è stato allenato a impostare dal basso dal lontano 2013. Ancora una volta: perché separare in modo artificioso quello che è da ogni punto di vista un continuum?

IL SENSO DEL COLLETTIVO

Mi sembra, insomma, che – pur nella lodevole ricerca di soluzioni alla crisi che ci è esplosa davanti agli occhi – permangano alcuni equivoci. Il calcio, ricordiamolo, è uno sport collettivo che spesso si commenta come se fosse uno sport individuale; di più, è uno sport "ad abilità aperte", nel senso che il calciatore agisce in un contesto di gioco a molteplici varianti, date non solo dal collettivo (i compagni), ma anche dagli avversari e dallo stesso spazio di gioco: in tutto questo, il singolo e l'organizzazione, tramite la tecnica e la tattica, interagiscono continuamente. Il singolo (prendiamo Lamine Yamal, eletto a modello di riferimento per la sua giovane età contrapposta alla grande maturità calcistica) si esalta perché ha sì esercitato la sua tecnica, ma l'ha esercitata da sempre all'interno di un collettivo e sfrutta l'organizzazione per fare emergere le sue doti.

QUALCHE MODESTA PROPOSTA

Gli aspetti metodologici di cui abbiamo parlato finora sono, a mio avviso, fondamentali: ma altrettanto importanti sono altri aspetti legati all'organizzazione e alla gestione dei settori giovanili. Provo a elencarne qualcuno.

  • La necessità di garantire dignità professionale a chi opera nei settori giovanili. Il dichiarato non corrisponde all'agito: quando un club deve tagliare i costi parte sempre dal proprio settore giovanile perché è un'attività considerata un costo e non un investimento. Ho vissuto in prima persona il progetto di creare una "squadra B" al Milan, poi abortito per ragioni economiche: era la strada giusta e sono felice che oggi, in una situazione finanziaria più solida, il Milan sia tornato a quel progetto che – credo – darà risultati sportivi ed economici.
  • A questo proposito occorre stabilire una politica che premi in modo concreto – rendendo l'investimento sostenibile – quei club che investono sul territorio e provano ad alimentare il numero di giocatori che arrivano in prima squadra, ponendo freno al fenomeno del player trading che coinvolge soprattutto giocatori stranieri.
  • Occorre infine provare a contrastare quel meccanismo per cui figure tecniche e non solo trovano spazio nei settori giovanili grazie ad agenti e procuratori. Questo non per mettere in discussione le loro qualità, ma per porre fine a dinamiche che a volte non rispettano la meritocrazia. Filippo Galli, in collaborazione con Luca Villani da filippogalli.com

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