Acab, la serie su Netflix: a distanza di 13 anni, la squadra di Marco Giallini continua a picchiare

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Novembre 2024: sono ripresi gli scontri in Val di Susa. La squadra Roma è carica, dopo aver atteso a lungo chiusa nel furgone. Il clima è teso, i manifestanti pacifici urlano dietro il cancello, ma il problema sono gli antagonisti, dall’altra parte. È lì che gli agenti comandati dall’ispettore Pietro Fura (Fabrizio Nardi) vengono mandati. Danno il cambio alla Senigallia, guidata da quell’"infame" di Michele Nobili (Adriano Giannini). Sassi, lacrimogeni, scudi, petardi, bombe carta. Un uomo gravemente ferito, ma "Roma non arretra", semmai spranga, anche a scontri finiti.

Mazinga (Marco Giallini nei panni dell’ispettore Ivano Valenti) è l’unico rimasto della vecchia squadra, ma il tempo non lo ha reso saggio. Semmai, ancora più incazzato. Acab, da romanzo a film a serie tv: sei puntate in onda su Netflix dal 15 gennaio. Regia di Michele Alhaique, produzione Cattleya.

I picchiatori sono tornati. E, anche se in mezzo ci sono 13 anni (quasi 16 dal libro di Carlo Bonini), l’odore del sangue si percepisce ancora. Non avrà, chi guarda, lo stesso impatto, venendo meno l’effetto sorpresa, ma la violenza – soprattutto quella gratuita – resta disturbante.

Nel gruppo (che all’epoca fu anche di Pierfrancesco Favino e Filippo Nigro, con la regia di Stefano Sollima, che qui invece è produttore esecutivo) è arrivata una donna: Valentina Bellè, nei panni dell’agente Marta Sarri (le donne hanno avuto accesso ai reparti mobili nel 2018). Ma soprattutto in squadra arriva proprio quell’infame di Nobili, quello che i metodi di Roma non li concepisce, quello per cui la Senigallia è stata soprannominata "rosa". Ed è qui che si consuma l’eterno conflitto di ogni ordine democratico: dove finisce l’esercizio legittimo della forza? Qual è il rapporto tra sicurezza e libertà, tra caos e ordine? Sono domande che anche lo spettatore tende a porsi, sollecitato dal racconto: "Lo sforzo è stato quello di uscire ancora una volta dalla nostra zona di conforto, di fare un passo indietro rispetto al nostro giudizio morale, oggi che la società è andata addirittura oltre le categorie di caos e ordine", sentenziano Bonini, Sollima e Filippo Gravino, che ha ideato e scritto la serie con il giornalista.

La polizia all’epoca era reduce dal G8 di Genova e dal massacro della Diaz. Una macchia difficile da cancellare, tanto che i muri si riempiono ancora della scritta Acab, All Cops are Bastards. Quando Antonio Manganelli divenne capo della Polizia di Stato, decise di istituire una scuola per l’ordine pubblico a Nettuno, vicino Roma: lì i reparti mobili vengono addestrati anche a non reagire a sputi, insulti e sampietrini. L’obiettivo dovrebbe essere quello di evitare il più possibile il contatto tra manifestanti e forze dell’ordine, ma non sempre è possibile.

La serie non risparmia, dicevamo, la violenza, ma non risparmia nemmeno la miseria. Scavando nella vita dei personaggi, troviamo che ognuno di loro porta sul lavoro il fardello pesante dei propri fallimenti: relazioni tossiche, figli perduti, solitudine. L’unica forza che gli agenti hanno è la squadra: fratellanza, obbedienza, omertà. Si aiutano l’un l’altro, obbediscono all’unico capo che riconoscono come tale (non certo quello che la gerarchia impone loro), lasciano la verità oltre lo scudo da ordine pubblico. Non si salva nessuno, e nessuno – forse – si redime. "Celerino figlio di puttana", se la cantano addirittura in coro tra di loro, nella consapevolezza che la ferocia del branco nasconde facilmente la fragilità del singolo.

Nei giorni in cui il governo Meloni studia uno scudo penale per le forze dell’ordine, è bene che qualcuno ricordi cosa ciò rischia di significare.

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