Genova, picchiarono un giornalista durante una carica sui manifestanti: quattro agenti condannati in Appello a un anno per lesioni

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La Corte di Appello ha condannato a un anno di reclusione per lesioni volontarie aggravate i quattro agenti del VI reparto mobile di Bolzaneto che, quasi sei anni fa, accerchiarono e picchiarono il giornalista Stefano Origone durante una carica della polizia a Genova. L'episodio avvenne il 23 maggio 2019, nel corso degli scontri tra manifestanti antifascisti e forze dell'ordine, schierate per proteggere un comizio di CasaPound autorizzato dal Comune in piazza Corvetto.
Il 23 maggio 2019, Origone stava seguendo per il suo giornale le tensioni in piazza durante le cariche della polizia per disperdere i manifestanti antifascisti. Il giornalista fu travolto, accerchiato e colpito dai quattro agenti Fabio Pesci, Stefano Mercadanti, Luca Barone e Angelo Giardina, che lo assalirono con manganellate e calci, provocandogli "lo spappolamento di due dita della mano destra, una costola fratturata, trauma cranico e contusioni su tutto il corpo". Nonostante le molteplici operazioni chirurgiche subite, la funzionalità della mano è stata compromessa in modo permanente. In quei frangenti, Origone era riuscito a urlare chiaramente di essere un giornalista senza che questo fermasse in alcun modo gli agenti. Fu solo grazie all'intervento di un funzionario che lo riconobbe che gli agenti interruppero il pestaggio.
Dalla prima udienza del 2020 fino ai recenti sviluppi, la difesa degli agenti ha sostenuto che Origone non fosse “distinguibile” dai manifestanti. “Il giornalista Stefano Origone non aveva segni distintivi tipici del giornalista ed era anche vestito di scuro”, si legge in una delle memorie difensive. Gli avvocati degli imputati hanno descritto la carica come “un'azione di alleggerimento necessaria”, sostenendo che l'uso del manganello rientrasse nelle “regole di ingaggio consuetudinariamente ammesse”. L'informativa redatta dalla squadra mobile – colleghi degli imputati – descriveva i colpi con i quali si erano accaniti come “parte integrante delle operazioni di contenimento". In altre parole, la tesi della difesa è stata che se al posto del giornalista ci fosse stato un manifestante il pestaggio avrebbe potuto essere considerato legittimo.
Nel 2023, la Cassazione aveva annullato le precedenti sentenze, evidenziando l'assenza di elementi che giustificassero la legittima difesa: “Origone non aveva mostrato alcun segno di aggressività o resistenza, nemmeno passiva". Anche qualora Origone fosse stato un manifestante, la suprema corte aveva rimarcato che l'uso della forza da parte degli agenti sarebbe stato illegittimo e sproporzionato. “I giudici di merito hanno trascurato di indicare in base a quali elementi gli agenti avessero erroneamente ritenuto legittimo l'uso delle armi sferrando più colpi di manganello e calci al corpo di un uomo dapprima fermo e successivamente rannicchiato a terra”, aveva sentenziato la Cassazione, aggiungendo che non può essere "il mero stato d'animo" o la volontà di "dare un monito ai manifestanti" a giustificare simili abusi nell'esercizio della forza. Come avevano sottolineato i giornalisti presenti al presidio davanti al Tribunale nel 2020 “quello che è accaduto a Stefano poteva accadere a chiunque”. La giustificazione che gli agenti “non sapessero” che fosse un giornalista non può in alcun modo legittimare l'accanimento subito.
Lunedì 13 gennaio, nel processo d'appello bis, i giudici della Corte di Appello hanno accolto le indicazioni della Cassazione, condannando i quattro imputati a un anno di reclusione per lesioni volontarie aggravate. “Quel giorno stavo solo facendo il mio lavoro, e non avevo alzato un dito contro nessuno, quello dei poliziotti non poteva essere un eccesso di legittima difesa – dice ora Stefano Origone – Mi dissero che ero stato al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma non è così: ero dove un giornalista dovrebbe essere". Malgrado Origone abbia subito ripercussioni fisiche e psicologiche, a quasi sei anni dai fatti non ha ancora ricevuto un risarcimento adeguato che dovrà essere stabilito in un processo civile separato. Ora non è escluso che gli agenti, che hanno potuto usufruire dei benefici di legge e la cui pena è sospesa, malgrado la sentenza della Corte di Appello si basi sul pronunciamento della Cassazione, possano a loro volta ricorrere alla Suprema Corte, rimandando ulteriormente eventuali ripercussioni sul piano disciplinare.

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