Giornata vittime delle mafie a Trapani, dove la sanità è doppia: lentissima per tutti, ma non per Messina Denaro

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È la città dei Misteri, con la maiuscola, come la processione d’origine spagnola che da più di 400 anni attraversa il centro ogni venerdì di Pasqua. Ma è anche la città dei misteri, minuscoli ma non meno importanti: l’omicidio di Mauro Rostagno, quello del giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto, la strage di Pizzolungo, il centro Scorpione, la loggia Scontrino. L’elenco potrebbe continuare, soprattutto se da Trapani si allarga lo sguardo alla provincia: secondo Paolo Borsellino l’idea stessa della mafia era nata all’estremo occidente della Sicilia. A differenza di Palermo, di Caltanissetta e di Catania, qui Cosa Nostra ha sempre avuto una naturale spinta imprenditoriale, politica, massonica. Una vocazione istituzionale, di governo: altro che anti Stato. Sarà un caso ma è a Trapani che negli anni ’80 hanno ambientato La Piovra, immortale serie televisiva capace di sollevare roventi polemiche perché raccontava la mafia come parte della classe dirigente. Sempre qui, nel 2017 – cioè quarant’anni dopo – la Commissione Antimafia ha contato una ventina di logge massoniche attive: erano almeno sei solo a Castelvetrano, la città di Matteo Messina Denaro. Tutto legale, nonostante a volte quei circoli siano serviti per far accomodare i boss al fianco dei politici e dei professionisti più potenti della provincia. Poteri occulti, sotto il cappuccio.

È qui, a Trapani, che oggi arriva la carovana di Libera. Per celebrare la Giornata nazionale della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie, l’associazione di don Luigi Ciotti ha scelto la città simbolo degli ibridi connubi, come li definiva Giovanni Falcone. Questa volta sarà nel centro della città delle Saline che saranno letti gli oltre mille nomi delle persone assassinate da Cosa nostra, dalla ‘ndrangheta e dalla Camorra. È la trentesima edizione, come trenta sono gli anni trascorsi dalla nascita di Libera. Tre decadi in cui l’associazione ha fatto diventare realtà un concetto rivoluzionario come l’antimafia sociale. Un’operazione storica in grado di cambiare completamente il volto del Paese, da Trapani a Torino, passando da Scampia, dai quartieri popolari di Palermo, fino all’hinterland milanese. È stata una battaglia epocale, che però – rischiando la retorica – non è ancora possibile considerare conclusa. E non solo perché il Parlamento continua ad approvare leggi che, secondo tutti gli addetti ai lavori, porteranno indietro le lancette della lotta alla mafia: l’ultima è la stretta all’uso delle intercettazioni telefoniche.

Che ci sia ancora molto da fare lo testimonia anche quello che sta avvenendo proprio in provincia di Trapani. Nelle ultime settimane si è scoperto che l’Azienda sanitaria provinciale ha refertato con mesi o addirittura anni di ritardo più di tremila esami istologici. Per tutto questo tempo centinaia di persone che sospettavano di avere un tumore hanno aspettato di conoscere la diagnosi. E mentre aspettavano spesso il cancro si è trasformato in metastasi: qualcuno oggi lotta contro un male che sarebbe stato molto più facile da curare se solo fosse stato individuato in tempo. Per qualcun altro, invece, l’esito è arrivato addirittura dopo la morte. Uno scandalo di dimensioni nazionali, che coinvolge ovviamente la classe politica: dai vertici dell’Asp scelti dalla maggioranza di centrodestra, ai leader regionali fino ai loro referenti romani. Ma non solo.

In tanti, infatti, hanno notato come gli ospedali travolti dal caso degli esami istologici siano gli stessi frequentati da Messina Denaro nell’ultima fase della sua trentennale latitanza. Quando lo arrestano, il 16 gennaio del 2023, l’ultimo boss delle stragi ha un appuntamento per una seduta di chemioterapia alla clinica La Maddalena di Palermo. Ma quella è solo l’ultima tappa: Messina Denaro, infatti, aveva scoperto di avere un tumore al colon già tre anni prima. È il 3 novembre del 2020 quando il capomafia si sottopone a una colonscopia nello studio del dottor Francesco Bavetta a Marsala. Essendo il principale ricercato del Paese, deve usare i documenti di Andrea Bonafede, l’uomo di Campobello di Mazara che gli ha prestato l’identità negli ultimi anni di latitanza. Nonostante tutto, però, appena 24 ore dopo la colonscopia, il campione istologico prelevato a Messina Denaro viene inviato all’ospedale di Castelvetrano, dove l’esame viene svolto in regime di libera professione. I risultati arrivano subito, il 5 novembre: quello che succede in quei giorni è stato ricostruito accuratamente dal pm Gianluca De Leo, nella requisitoria del processo ad Alfonso Tumbarello. Il medico massone (poi sospeso dal Grande Oriente) sostiene di non aver mai saputo che il suo assistito Bonafede avesse prestato l’identità a Messina Denaro, mentre secondo la procura di Palermo ha consapevolmente aiutato il superlatitante ad affrontare un complicato percorso sanitario. Decidere come sono andate davvero le cose è un compito che spetta ai giudici del tribunale di Marsala.

Di un fatto però possiamo già essere certi: se oggi in provincia di Trapani ci sono persone che hanno atteso anche 8 mesi per avere l’esito di un esame istologico, nel 2020 a Messina Denaro sono bastate 48 ore, seppur solo dopo aver pagato la prestazione all’interno dell’ospedale pubblico. Nello stesso giorno in cui arriva l’esito di quel test, il 5 novembre, Tumbarello prescrive una visita chirurgica per il boss e firma una scheda di accesso in ospedale in cui scrive di aver eseguito personalmente “un’accurata valutazione clinica del paziente“, sollecitandone il ricovero. In calce il medico annota di voler essere informato delle condizioni di salute di Bonafede/Messina Denaro al termine del ricovero. Quello per la procura è un documento fondamentale perché “prova in modo incontrovertibile che il medico ha visto e visitato più volte Messina Denaro (e non già il suo assistito Bonafede), per poi divenirne stabile interlocutore nel corso del suo lungo e tormentato percorso terapeutico”. Per i pm le cure di Tumbarello hanno garantito a Messina Denaro di accedere gratuitamente alle costose prestazioni sanitarie di cui aveva bisogno, senza mai svelare la sua vera identità. Per questo motivo il pm De Leo ha chiesto di condannare il medico a 18 anni di carcere per concorso esterno. Toccherà al tribunale stabilire se la ricostruzione del magistrato è corretta. E sarà la procura guidata da Maurizio de Lucia a decidere se ci sono abbastanza elementi per portare a processo gli altri camici bianchi indagati. Di sicuro c’è solo che che il 9 novembre del 2020 Messina Denaro entra all’ospedale di Mazara del Vallo e il 13 novembre viene sottoposto a un intervento chirurgico: dalla colonscopia e dal relativo esame istologico sono passati appena dieci giorni. Tempi record anche per i centri specializzati del Nord Italia. Ma diventano tempi da Guinnes dei primati se consideriamo che il paziente era uno dei più pericolosi latitanti del mondo.

Niente a che vedere con la storia di Paolo Robino, operato all’ospedale di Marsala il 24 settembre del 2024. Attendeva di sapere di che natura fosse il suo tumore, quando il 13 gennaio è stato ucciso da un infarto: dieci giorni dopo, i suoi parenti hanno ricevuto l’esito dell’esame istologico. Sulla vicenda la procura di Marsala ha aperto un’inchiesta che è ancora alle primissime battute: tutte da valutare le eventuali responsabilità. Ovviamente in questo caso l’associazione mafiosa, intesa come reato, non c’entra nulla. Ma la mafia è per sua stessa natura un fenomeno che si evolve, cambia adattandosi al contesto. Oggi, forse, estrae nuova linfa dalla gestione privata dell’accesso alle cure sanitarie pubbliche. Un diritto fondamentale che dovrebbe essere garantito a tutti. Chissà, magari a Trapani si potrebbe inserire anche il nome di Paolo Robino in fondo all’elenco delle oltre mille vittime delle mafie.

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Nella foto: l’ormai celebre selfie di Messina Denaro con uno dei medici che lo hanno avuto in cura

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