La mattanza di Gaza si consuma sotto gli occhi distratti del mondo. Indignazione? Troppo poca
01/04/2025 03:06 AM
di Susanna Stacchini
Ripudiare la guerra è un dovere civico, tanto nobile, quanto disatteso. Lo testimoniano i numerosi focolai sparsi per il mondo e la troppo poca indignazione che generano. Ho sempre creduto che la guerra fosse lo scontro armato, dichiarato e organizzato, fra Stati rivali. E già era un orrore. Poi, nel tempo ho capito che era stato deciso che è guerra, anche quando uno Stato invade un territorio altrui, con l'intenzione, anche se non formalmente esplicitata, di sterminarne il popolo.
Penso a Gaza. Lì, bambini, donne, uomini, vecchi muoiono, oltre che sotto le bombe, di fame, di sete, di freddo, di caldo, di stenti e per qualunque cazzo di malattia. Anche un raffreddore può essere fatale. Penso alle persone affette da malattie psichiatriche che in assenza di terapia, si trovano costrette ad abdicare in favore di deliri, ossessioni, fobie e allucinazioni. Penso ai malati oncologici, anche bambini che non potendo accedere a terapie mirate, si ritrovano in balia di un cancro qualunque e di atroci dolori, con un'unica speranza, quella di morire sotto una granata.
A Gaza, si calpesta scientemente la dignità di un popolo. Si costringono masse di persone stipate tra loro, a gestire qualunque bisogno in condizioni igieniche disperate e in assenza di qualsivoglia forma di riservatezza. Non riesco ad immaginare il disagio di donne mestruate senza assorbenti, sapone, né acqua e di quelle che, denutrite, le mestruazioni non ce l'hanno più. Penso alla sofferenza di ragazzi disabili e anziani non autosufficienti. Penso ai feriti con ulcere ormai putride, per mancanza di antibiotici e presidi sanitari di ogni genere. Penso ai bambini, donne, uomini, amputati senza anestesia e suturati alla meglio, con quel che c'è. Gaza, una striscia di terra trasformata in un inferno, senza vie di fuga.
Lì non esiste più niente, tutto si è fermato, pure il tempo sembra averlo fatto. Non si va a lavoro, né a scuola e i bambini non giocano, se non con esplosivi trovati qua e là, pronti a scoppiare e mutilarli. Si perdono gli affetti più cari. Figli, genitori, fratelli, sorelle, amici. E sopraffatti dal dolore, mentre svaniscono ricordi, sogni e la speranza di un futuro, si frantuma la percezione di sé. Nessuno sopravvive a un genocidio, perché per vivere, non è sufficiente non morire. La gente corre, cammina, si accascia a terra, piange, grida, ma sente di non esistere. Sono profughi nella loro terra, obbligati a spostarsi di continuo per raggiungere località, beffardamente spacciate come sicure.
E in sfregio a qualunque monitor dell'Oms, dell'Unicef e delle Nazioni Unite, a Gaza si bombardano ospedali, o ciò che ne resta, rifugi e campi profughi. Si bombarda, o si spara direttamente sulla gente accalcata attorno a un camion contenente generi alimentari o acqua potabile, in attesa di una misera razione.
A Gaza, si ammazzano giornalisti, operatori sanitari e umanitari. A Gaza, si è fatto il possibile per impedire la somministrazione del vaccino antipoliomielite a migliaia di bambini, fino ad uccidere loro e le loro madri, nel tragitto di andata o ritorno, dai centri vaccinali. A Gaza il diritto internazionale è diventato carta straccia e l'Onu, un testimone scomodo da rimuovere. In nome della lotta al terrorismo di Hamas, si giustifica il sistematico massacro di civili inermi, ovunque essi siano, di ogni età, estrazione sociale e genere, incuranti peraltro, dell'inevitabile effetto boomerang. Molti dei bambini che riusciranno a sopravvivere oggi, non potranno che essere i terroristi di domani e così tutti, "buoni" e "cattivi", potranno continuare a bombardare liberamente.
La mattanza di Gaza continua a consumarsi sotto gli occhi distratti e indifferenti del resto del mondo e in particolare di chi, pur avendo il potere per fermarla, decide di non farlo. E con l'ipocrisia di sempre, finge un dolore che non c'è, millantando un proattivo ruolo diplomatico. A noi non resta che scusarci con i nostri figli e nipoti e augurare loro, di riuscire dove noi abbiamo fallito.
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