Le assaggiatrici di Silvio Soldini, bocconcino cinematografico un po' avvelenato

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L'ho visto ma non l'ho sentito. Le assaggiatrici di Silvio Soldini sarà ricordato come il film dove per un'analisi critica utilizzare il concetto di "autore", comunque la pensiate, non serve granché. Già, perché Le assaggiatricisi può vagamente, pardon, gustare solo se si esce dal paradigma esclusivo che ha investito la critica cinematografica dai Cahiers in avanti. Inutile cercare fili, poetiche, incastri con ciò che Soldini ha girato fino a qualche anno fa (Soldini è quello di un capolavoro romantico surreale e, mi si permetta, immortale, come Pane e tulipani).

Le assaggiatrici è una generica, piatta, anche se produttivamente robusta, fiction Rai in costume, riempita di cliché nazisti, giocata su un unico piano di lettura (il sadico sacrificio involontario della persona comune), imballata su primi piani in campi e controcampi che non fanno più nemmeno in Il paradiso delle signore. Un film che somiglia nella sua imbalsamata isolante estetica preventiva alla sartoria di Diamanti di Ozpetek e nella artificiale freddezza impersonale di una puntata dell'Ispettore Derrick.

Tratto dall'omonimo romanzo di Rossella Postorino, che rielabora con ampia libertà la vicenda vera di Margot Wolk, una delle quindici forzate e involontarie assaggiatrici del cibo di Hitler nella cosiddetta Tana del Lupo, nella Prussia orientale tra il '42 e il '45, il film di Soldini ne riprende titolo e coordinate generali sfrondando appunto la quantità di assaggiatrici (quindici non fai in tempo a inquadrarle tutte che il film è finito, quindi diventano una mezza dozzina) concentrandosi sulla protagonista Rose (Elisa Schlott).

Una giovane bionda con gli occhi azzurri, marito soldato disperso sul fronte orientale, casuale transfuga dalla Berlino bombardata alla casa di campagna dei suoceri proprio a due passi dal bunker hitleriano. Poi Le assaggiatricivorrebbe diventare un claustrofobico thriller di difficile solidarietà femminile alla fine di ogni piatto presunto avvelenato. C'è il tempo della chiacchiera su Hitler vegetariano diventato tale perché non riusciva a sopportare il sangue dei macelli (mica vero), dell'inizio di una liaison di Rose con il cinico ma innamorato comandante SS dell'ufficio assaggiatrici (la vera signora Wolk parlò di una violenza a fine prigionia), qualche sigaretta in giardino, e poi l'improvviso ulteriore inasprirsi delle norme di sicurezza (dopo l'attentato ad Hitler dell'estate del '44 le assaggiatrici dovranno anche pernottare vicino alla sala assaggi).

Il problema, però, è che Le assaggiatrici, schiacciato da una livida monotonale atmosfera più alpina che prussiana, si ricompone spesso grazie a precipitati frammenti celebri di film del periodo (c'è un po' di Il Pianista, un po' di Suite francese, ecc…) e dove in soccorso alla drammaturgia originale accorre l'albo dei clichè sulla rappresentazione cinematografica di SS&co. Sarà per i sei sceneggiatori presenti nei crediti finali, ma Le assaggiatrici non offre grande organicità di scrittura, pilota automatico sulla griglia già costituita e orientata dal romanzo (che Rose provi a salvare l'assaggiatrice ebrea la vera signora Wolk non sembra averlo mai raccontato, ma ci rimettiamo alla clemenza degli autori), fino ad un finale rosselliniano che poteva anche essere spostato in mille momenti del racconto visto che dalle parti degli assaggi di cavoli e fagioli per il Fuhrer un climax non lo si trova mai. Insomma, bocconcino cinematografico un po' avvelenato. Capita. Con un buon Alka Seltzer passa la paura.

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