Migranti in Albania, cento agenti a presidiare il nulla. Tra disillusione sui rimpatri e futuro incerto: "Si riparte ad aprile, forse" – FOTO
Oggi alle 11:51 AM
Dopo il trattenimento di una ventina di migranti, tutti trasferiti in Italia per incompatibilità tra le procedure d’asilo svolte e il diritto europeo, nei centri di Shengjin e Gjader è rimasto solo il personale e gli operai che lavorano nei cantieri di strutture ancora da completare. Tanto che la visita della delegazione di Volt Europa e dei suoi europarlamentari “è stata accolta come piacevolissimo diversivo”, raccontano i due copresidenti del “primo partito paneuropeo” in Italia, Daniela Patti e Guido Silvestri, al termine del loro giro a Gjader. “Sulle procedure di rimpatrio non c’è un protocollo, dicono che va ancora definito”, è stato spiegato loro dai funzionari dell’ambasciata e di polizia che li hanno accompagnati. “Non è chiaro se chi non ottiene l’asilo va prima portato in Italia o se potrà essere imbarcato grazie a un accordo con l’aeroporto di Tirana”. Non proprio dettagli, ma poco male, per ora. Perché del cortocircuito normativo che ha bloccato i piani del governo non si tornerà a parlare fino al 4 dicembre, quando la Cassazione si pronuncerà sulla famosa questione dei “Paesi sicuri” e sui ricorsi del Viminale contro i decreti dei magistrati di Roma che a metà ottobre avevano liberato e inviato in Italia i primi 12 richiedenti.
“Ma da quanto ci è stato riferito si attendono che la Cassazione rinvii tutto alla Corte di giustizia europea”, spiegano quelli di Volt. Anche a ottenere la procedura d’urgenza, perché la Corte Ue si esprima serviranno mesi. In altre parole, “qui non si aspettano nuove indicazioni prima di aprile, né nuovi trasferimenti di migranti”. E tuttavia chiudere non è possibile. Intanto perché un terzo del centro di Gjader è ancora da costruire e nemmeno i “mille posti iniziali” previsti dal governo non ci sono. Costruzione dei centri e forniture annesse valgono 70 milioni di euro dei circa 700 previsti per il primo quinquennio. “Ad oggi sono disponibili 200 posti per i richiedenti, appena 24 nel Cpr destinato alle persone da rimpatriare e altrettanti nella struttura detentiva presidiata dagli agenti della penitenziaria”, spiegano Patti e Silvestri, che durante la visita si sono mossi tra mezzi per il movimento terra, fermi per la pioggia battente che ha accolto la delegazione. Anche l’ospedale “da campo”, dicono, va completato con una sala chirurgica e l’allestimento di sale isolate per i casi di malattie infettive. Un presidio attivo nonostante il centro vuoto perché l’italico baluardo del contrasto all’immigrazione va presidiato e solo per il perimetro e le torrette “servono quotidianamente dieci turni di guardia per un totale di 150 persone”. Dopo il rientro in patria di una cinquantina di agenti, tra l’hotspot nel porto di Shengjin e Gjader, “le forze di polizia ancora presenti sono un centinaio scarso“, riporta la delegazione di Volt.
Poi c’è la cooperativa che si è aggiudicata l’appalto per la gestione dei centri, il colosso Medihospes già attivo in Italia, “che a regime ha previsto l’impiego di 800 persone, tra medici, mediatori, interpreti, manutentori, eccetera”. E che invece ha rimandato in patria il personale italiano lasciando un piccolo contingente di 7 persone per l’amministrazione e la necessaria formazione del personale albanese, assunto con stipendi che per gli standard albanesi sono di tutto rispetto. “Un centinaio di persone, per ora, nonostante il contratto d’appalto col Viminale non sia ancora stato perfezionato. Mentre oggi le uniche persone operative che abbiamo incrociato sono quelle dedite alle pulizie”. Tutto fermo e, per adesso, senza certezze. “Sembra una caserma vuota, dove tutto è nuovo ma non si sa come impiegare il tempo”, è l’idea che si è fatto Silvestri. Così anche l’urgenza che ha sottratto alla disciplina degli appalti pubblici la grande maggioranza delle opere diventa paradossale, rendendo ancora più indigesta la scarsa trasparenza con la quale si è deciso di gestire le cose.
Quanto agli alloggi, Volt parla di una struttura sicuramente più dignitosa di tanti Cpr operativi in Italia. “Quello che ci ha colpito sono invece le due sale adibite ai colloqui telematici dei migranti con la commissione territoriale che decide delle richieste d’asilo o col proprio rappresentante legale, che difficilmente potrà mai essere incontrato di persona visto il risibile rimborso di 500 euro previsto: quale avvocato partirebbe dall’Italia a queste condizioni?”, si domandano i presidenti di Volt, confermando i timori sull’effettività del diritto alla difesa che da sempre accompagnano il Protocollo Italia-Albania. Ma non è tutto. Se mai torneranno i migranti, quelli che non avranno diritto all’asilo andranno trasferiti nell’area adibita a Centro per il rimpatrio e, come in Italia, potrebbero restarci fino a 18 mesi secondo la riforma voluta dal governo Meloni. Una prospettiva che desta perplessità pure tra i funzionari di Gjader. Anche a farli funzionare, per le procedure di rimpatrio i centri albanesi dipendono dagli accordi di riammissione coi Paesi d’origine, esattamente come per i Cpr in Italia dai quali l’anno scorso sono state rimpatriate appena 2.900 persone. E se gli accordi non ci sono, i rimpatri non si fanno. “Cosa ci è stato risposto? Nemmeno a loro è chiaro, perché due mesi sembrano essere più che sufficienti per capire se una persona torna o non torna, se l’accordo col suo Paese c’è o no, e trattenerla 18 mesi non cambia nulla”, riferiscono i due presidenti di Volt.
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