Ucraina, che cosa vuol dire "essere disposto al dialogo" secondo Putin
Oggi alle 03:42 AM
Dopo il 5 novembre era prevedibile che si aprisse un teatrino più tragico che ridicolo sulla diponibilità di Vladimir Putin “all’interessante” piano di pace di Trump, non meglio esplicitato ma incentrato – secondo fonti attendibili – sul sostanziale riconoscimento delle pretese di Mosca da realizzare intanto con “la fine della paghetta” per Zelensky, annunciata trionfalmente anche dal primogenito del “pacificatore”. Se c’era bisogno di una riprova di quanto Putin si senta rafforzato dal trionfo di Trump e quanto confidi nella disunione e fragilità dei suoi ex polli europei (Merkel inclusa), in questi pochi giorni l’abbiamo avuta.
Putin si è mosso secondo lo schema della dissimulazione abituale, prima ostentando freddezza e disinteresse all’iniziativa di Trump e negando qualsiasi contatto, poi “ribadendo” la disponibilità al dialogo mentre stava ammassando i primi 11.000 soldati nordcoreani ai confini con l’Ucraina: secondo l’agenzia Bloomberg, sarebbero circa un decimo di quelli ingaggiati per i prossimi mesi da impiegare non solo a Kursk ma anche in Donbass. Nel frattempo forte dell’attenzione che gli ha dedicato Olaf Scholz con la telefonata, interpretata nella logica del bullismo putiniano come dichiarazione di debolezza, ha attaccato massicciamente civili e strutture energetiche da sud a nord est colpendo anche un dormitorio scolastico nella regione di Sumy con almeno sette morti e intensificando pesantemente le offensive di terra grazie al contingente coreano.
La strategia che comprende le rituali dichiarazioni di “disponibilità a negoziare” (previo riconoscimento dei territori occupati dal 2014, oblast annessi con i referendum farsa del settembre del 2022, conquiste attuali più “denazificazione”), escalation nell’aggressione e minaccia nucleare si è perfezionata ulteriormente all’ombra rassicurante di Trump.
Anche i tempi si sono freneticamente ridotti ed invettive e minacce si ripetono con ritmi serrati: Donald junior ha additato come un pericolo assoluto per l’umanità Joe Biden per aver tolto le restrizioni ai missili a lungo raggio in quanto “vuole lasciarci in eredità la terza guerra mondiale”. E così una voce roboante nella costellazione del potere trumpiano è suonata in perfetta sintonia con quella di Dmitry Medvedev, addetto alla propaganda più apocalittica. L’ex delfino di Putin ha tuonato: “L’uso dei missili può essere ora qualificato come aggressione dei paesi del blocco Nato contro la Russia. Questa è già la terza guerra mondiale. Forse il vecchio Biden ha deciso davvero di lasciare la vita portandosi dietro buona parte dell’umanità”.
Che cosa abbia alla fine dopo non pochi tentennamenti convinto “il vecchio Biden” già dileggiato ed umiliato ad abundantiam dai molteplici ammiratori, più o meno dichiarati, del binomio Putin-Trump a concedere l’autorizzazione all’uso degli Atacms contro le basi russe è presto detto. “Rimbambiden” o supposto tale si è reso conto della convergenza di alcuni fattori concomitanti che lo hanno persuaso ad agire in extremis, onorando l’impegno a non abbandonare l’Ucraina e a non disinteressarsi dell’Europa. Pur sempre un argine, per quanto fragile, al travolgimento sistematico del diritto internazionale e delle basi della democrazia messo in atto da Putin.
La massiccia offensiva di Mosca su tutta l’Ucraina con 120 missili, 90 droni, 15 morti e decine di feriti all’indomani della telefonata con Scholz, l’uso massiccio delle truppe coreane di cui l’Europa quasi non si è “accorta”, la convinzione che Putin per qualsiasi mossa decisiva attenderà l’insediamento di Trump e che per quella data l’Ucraina deve trovarsi nelle condizioni meno svantaggiate, devono aver persuaso “il vecchio”. Adesso o mai più.
Ora tutta l’attenzione è focalizzata sull’ennesimo rilancio della minaccia atomica da parte di Putin che fa leva anche sul disorientamento, le divisioni e la pavidità da cui sono afflitti non da oggi gli alleati europei ancora lontani da una strategia militare e diplomatica comune, nonostante l’imminente insediamento di Trump alla Casa Bianca. Come annunciata da mesi è entrata in vigore la modificazione della dottrina nucleare russa aggiornata “all’insorgere di nuovi rischi e pericoli militari per la Russia” che prevede “una risposta nucleare di fronte all’ attacco di un qualunque stato appartenente ad una coalizione militare contro la Russia”, anche se si tratta di uno stato non nucleare come l’Ucraina, ma alleata o sostenuta da una potenza militare come gli Usa.
Dietro alla decisione, con il tempismo di un orologio di precisione e con la legge del più forte, come bussola lo Zar sta usando al meglio la grande paura dell’Occidente e per essere ancora più credibile ha lanciato anche il missile intercontinentale Kinzhal. L’altro obiettivo, non secondario è rimotivare i russi allarmati per il carovita, per i conti che peggiorano, per gli indennizzi e gli incentivi ai soldati che diminuiscono.
La data impressionante dei mille giorni di guerra rimane drammatica per Kiev che ora può solo contare sull’impiego immediato dei missili americani per colpire depositi di armi e munizioni come è avvenuto a Bryansk nel sud est della Russia, e sa bene che rimangono poche settimane. Ma i mille giorni di guerra pesano anche a Mosca che comincia ad avvertire gli scricchiolii di un regime di guerra appeso al petrolio e alla capacità di continuare a produrre armi con l’inflazione al 9% mentre diminuiscono manodopera e investimenti.
“La strategia comunicativa interna” ovvero la necessità di buttare nuova benzina sul fuoco della propaganda di Stato ha avuto un peso rilevante sul decreto che abbassa la soglia nucleare della Russia. E se è così e non si vuole favorire Putin non si comprende l’allarmismo “pacifista” finalizzato a tagliare gli aiuti militari a Kiev.
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