Lautaro: "Vivo per il gol, ma è cambiato il mio ruolo. Voglio tutto. Inzaghi ha un segreto"
12/22/2024 02:25 AM
Intervistato dal Corriere della Sera, il capitano dell'Inter Lautaro Martinez ha parlato del suo momento, della ricerca del gol e degli obiettivi della squadra nerazzurra: Lautaro, ha fatto l'albero di Natale? «Sì, da tre settimane: coi bambini è speciale». Il Natale che viveva lei era molto diverso da quello dei suoi figli? «C'è molta differenza, sì. I miei genitori lavoravano tutto l'anno per poter regalare qualcosa a me e mio fratello. Abbiamo vissuto periodi difficili, non avevamo i soldi per l'affitto e abitavamo in una casa che ci hanno prestato. Sono cose che ti rimangono dentro e ti legano ai tuoi famigliari». Visto che è un maniaco dell'ordine, ha addobbato l'albero in modo sistematico? «Certo, con le palline piccole sopra e quelle grandi sotto. E tutte in ordine per colore. Poi ci sono i bambini che ti cambiano tutto… ». Da dove nasce questo suo bisogno di ordinare le cose? «Credo sia una questione di salute mentale». Cosa intende? «Quando ero piccolo, tornavo a casa da scuola con mio fratello più grande e trovavo il pranzo già preparato da mia madre, che era fuori tutto il giorno a lavorare. La casa era un casino e prima di andare all'allenamento mi fermavo per sistemarla: rifacevo i letti, sistemavo la biancheria da lavare e facevo fare i piatti a mio fratello, perché mi dava molto fastidio vederli sporchi». La sua rabbia agonistica nasce così? «Sì, da piccolo io non avevo niente. A volte non sapevo dove avrei dormito la sera. Sono cose che mi hanno marcato come uomo e tutto quello che ho passato cerco di trasmetterlo in campo. Fuori dal calcio, cerco sempre di dare una mano e sono felice di andare a trovare i bambini che non stanno bene: capisco quello che vivono, le loro difficoltà». Il calcio è stato una specie di medicina per lei? «Il sogno di diventare calciatore come mio padre l'ho sempre avuto. Ma a 15 anni ho fatto una settimana in prova al Boca Juniors e mi hanno cacciato, dicendomi che non avevo né velocità, né potenza. Quando sono tornato a Bahia Blanca ho detto a papà che volevo divertirmi, lasciare il calcio e cominciare a lavorare. A fine anno è arrivato il Racing, offrendomi un altro provino: ho detto se mi volete vengo, ma prove non ne faccio più. E mi hanno preso». Poco dopo la famiglia le ha tenuto nascosto i problemi di salute di suo fratello maggiore. «Sì, questo le fa capire quanto i miei genitori hanno protetto il mio sogno di diventare calciatore professionista. Mi hanno avvertito quando era già uscito dall'ospedale. E dopo due anni di cure tutto si è risolto. Lui ha dieci mesi più di me, siamo legatissimi e quando io sono andato via da casa ha sofferto tantissimo». A 18 anni lei era una testa calda e ha dovuto lavorare con gli psicologi. «All'esordio in prima squadra ho preso due gialli in due minuti per due scivolate: vivevo tutto come una battaglia, perché volevo sempre dimostrare qualcosa. Gli psicologi mi sono serviti tantissimo: a essere più tranquillo, a pensare due-tre secondi in più alle cose e anche nel dialogo con l'allenatore. Dettagli che fanno la differenza». È uno dei pochissimi calciatori che vive a Brera, nel cuore di Milano. Come si trova? «È molto comodo per me, anche perché gestiamo un ristorante lì vicino. Esco poco, vado al parco coi bambini, cerco di frequentare posti riservati, perché non è facile girare tra la gente. Sono stato in cima al Duomo per il film sullo scudetto ed è stato bellissimo». Si è lanciato nella produzione di vino in Argentina, ma il sommelier Barella ne ha certificato la qualità? «Non ancora (ride), ma è una cosa in cui credo molto. Non l'ho mai detto a nessuno, ma quando ero al Mondiale due anni fa ho perso tutta la vendemmia per un incendio nel deposito: ventunomila bottiglie sono andate in fumo! Me l'hanno raccontato solo a torneo finito, per non farmi perdere la concentrazione. Ma anche queste sono esperienze che ti rafforzano. E i progetti attorno ai vigneti a Mendoza crescono: ci saranno albergo, spa, palestra, negozio». Senta, all'Inter segnano tutti tranne lei. Le pesa? «Sono un attaccante e vivo per il gol. Però si deve anche analizzare la partita che uno fa. E io in questi mesi sto giocando più lontano dall'area, perché mi piace far salire la squadra: è una cosa che sto aggiungendo al mio gioco e mi sento bene così». Anche la posizione di Thuram è cambiata di conseguenza. «Sì, Marcus sta più centrale e più avanzato, ma non è una cosa studiata: nasce dalla nostra intesa in campo. L'anno scorso spesso era lui che arretrava un po' o si allargava, adesso tocca a lui fare più gol». La mancanza di preparazione estiva ha influito su di lei? «Dopo la vittoria della Copa America sono tornato qualche giorno prima dalle ferie per l'infortunio di Taremi e ho avuto qualche difficoltà: il corpo a volte ti presenta il conto. Adesso però sto meglio». Si sente mai un robot? «A volte sì, a volte no: riposare mi piace poco, ma a volte le gambe non rispondono, a volte è la testa che non va. Le due cose devono essere collegate e bisogna essere bravi a gestirsi. L'importante, anche quando le cose non riescono come vuoi tu, è dare sempre il 100 per cento. Questa è una cosa che mi porto dentro e cerco di trasmetterla alla squadra da capitano». Forse non conosce la regola del ketchup di cui parlava Higuain: come la salsa, quando scuoti la bottiglia, i gol escono tutti all'improvviso. «Spero sia così. Del resto mi è già successo. L'importante è stare tranquilli e lavorare nel modo giusto. Sempre». A gennaio scorso in Arabia lei disse che si divertiva nell'Inter «come da ragazzo al campo con gli amici». Si può dire che il divertimento è appena iniziato con la vittoria di Roma sulla Lazio? «Sì, può essere. Quello è stato un segnale importante e dobbiamo continuare a lavorare sull'intensità. Anche perché il campionato quest'anno è ancora più difficile ed equilibrato. Quando ho detto quelle cose, la squadra si divertiva in campo e si vedeva. E forse finora abbiamo dato la sensazione di divertici un po' meno. Ma sappiamo sempre cosa fare, come trovare il compagno: Inzaghi ci lascia libertà di esprimerci al massimo». Che spiegazioni si è dato per il settimo posto al Pallone d'oro? «Ci sono vari aspetti, ma credo di aver fatto un anno importante, non solo perché sono stato capocannoniere in Copa America e in serie A, ma anche per il modo di giocare». Si sente sottovalutato? «A volte sì. Però i trofei di squadra hanno un peso diverso». Visto che Thuram ci ha detto che lei sorride poco, non è che lui dovrebbe essere più cattivo? «Forse sì, ma ognuno è fatto a modo suo e io ho lo sguardo cattivo già il giorno prima della partita. L'importante è essere sempre concentrati, soprattutto quando le cose vanno male. E questo Inzaghi lo sa gestire benissimo». Bastoni e Mkhitaryan votano per un'altra finale di Champions, Thuram sogna un altro scudetto. Ma tanto è il capitano che decide, no? «E io voglio tutto. Quando inizi a vincere, non ti vuoi fermare perché sai quanto è bello essere ripagati del lavoro fatto. E questa mentalità voglio trasmetterla anche nelle partitelle. Ho avuto la fortuna di vincere il Mondiale e pensavo che non ci fosse più niente dopo: ma c'è tanto altro». Anche Inzaghi è sottovalutato? «Secondo me sì. Il suo segreto è che continua a volte a pensare come un calciatore, quindi ci capisce tantissimo e vive le cose come noi. Per me poi la fortuna è doppia, perché lui è stato attaccante e quindi mi lascia la testa libera e il sorriso. Sono cose molto positive. Io con Conte ho imparato tantissimo e lo ringrazio. Con Inzaghi sento di essere cresciuto a livello altissimo». Il fatto che Conte sia uno dei principali avversari è uno stimolo o una preoccupazione? «Nessuna delle due. Sappiamo che il Napoli è forte, come del resto altre avversarie. E noi facciamo il nostro cammino: secondo me è la strada giusta e ci porterà grandi cose».