I mandanti esterni delle stragi, i misteri dell'arresto di Riina e il progetto occulto di assalto allo Stato nel libro di Riccio e Vinci

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È in uscita La strategia parallela, edito da Zolfo, firmato da Michele Riccio, generale dei Carabinieri, e dalla scrittrice Anna Vinci. Partendo dal racconto di Riccio, investigatore esperto nelle indagini su terrorismo e mafia, il saggio svela gli intrecci oscuri tra clan, massoneria e servizi segreti deviati italiani. Il libro ricostruisce una “strategia parallela” che da sempre caratterizza tutti i passaggi fondamentali della storia italiana. Lo fa anche ripercorrendo alcuni momenti cruciali della carriera di Riccio, come il rapporto tra il generale e Luigi Ilardo. Il boss di Cosa nostra decise d’infiltrarsi nell’organizzazione e avrebbe potuto condurre gli uomini dell’Arma all’arresto di Bernardo Provenzano con undici anni di anticipo. Pubblichiamo un estratto del libro, il capitolo 63 intitolato I mandanti esterni.

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Nel riprendere i nostri colloqui in merito ai mandanti esterni degli attentati degli anni 1992-1993 dei quali ci sta vamo per occupare, Luigi Ilardo mi chiese di porre particolare attenzione al fatto che questi erano la continuità di uno stesso ambiente politico-istituzionale che, avvalendosi del supporto dei servizi segreti, della destra eversiva e della massoneria, a far da collante, avevano dato vita a una strategia golpista e stragista sin dai primi anni Settanta. Certo, per il trascorrere del tempo e gli avvenimenti accaduti, molti protagonisti erano stati sostituiti da altri, sempre altrettanto idonei a svolgere il compito: tutti appartenevano al medesimo ambiente.

Ambienti che nel tempo avevano notevolmente inquinato lo Stato. Per questa ragione la riservatezza dei nostri rapporti e dei contenuti dei nostri discorsi doveva essere tutelata. Erano intese e «trattative» stipulate in un passato che Ilardo stesso aveva vissuto, fondamentali non solo per l'esistenza e la continuità di Cosa nostra, ma per quella parte politica-istituzionale che aveva necessità di mantenere determinati rapporti nel rispetto di regole «condivise». Ilardo avrebbe dato un determinante apporto al magistrato per fare luce su quei rapporti che settori deviati delle istituzioni avevano con Cosa nostra, per realizzare affari, commissionare stragi e delitti «eccellenti». Volle indicarmi anche alcune di queste vittime: l'onorevole Pio La Torre, il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella e l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco. Avrebbe fatto luce anche su tre delitti che avevano fortemente scosso l'opinione pubblica: l'assassinio del piccolo Claudio Domino del 7 ottobre del 1986; quello dell'agente di polizia Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio del 5 agosto del 1989, quello dell'agente di polizia Emanuele Piazza del 16 marzo del 1990. Nominò anche il noto, fallito attentato esplosivo nei confronti del giudice Giovanni Falcone del 21 giugno 1989.

Questi delitti avevano visto il coinvolgimento del Sisde, così come il fallito attentato dell'Addaura. Durante la loro realizzazione il Sisde aveva inviato in quei luoghi anche un suo agente che venne descritto a Ilardo da suo cugino «Piddu» Madonia, in un incontro del 1990, come una «persona alta, magra e di brutto aspetto». Una conferma di quanto aveva già appreso da altri detenuti, affiliati di livello a Cosa nostra. Il collaboratore mi sintetizzò il tutto con l'epiteto «faccia da mostro» che poi diventerà iconico. Filippo Quartararo, altro esponente di Cosa nostra, che nel 1988 condivideva con Ilardo la cella numero 40 a L'Ucciardone, gli confidò che era stato deciso di uccidere in quei giorni Giovanni Falcone utilizzando un'arma lanciamissili. Dopo questa confidenza i detenuti seguirono i telegiornali aspettando la notizia dell'attentato, che non arrivò. Anni dopo il giudice fu trasferito a Roma.

«Ci penseranno i socialisti a farlo fuori» fu in quella occasione il commento di un compagno di cella di Ilardo e fu quanto gli riferì sua madre nel corso di un colloquio in carcere. Era abitudine dei familiari che andavano a trovarlo informarlo dei vari rapporti di forza tra clan, in modo che lui potesse meglio muoversi all'interno e stabilire le giuste alleanze. Secondo Ilardo, il motivo dell'assassinio del magistrato nella strage di Capaci andava ricercato nella volontà del dottor Falcone di proseguire la sua lotta alla mafia da Roma, dando maggiore respiro al lavoro d'indagine che tante paure e ansie aveva creato negli ambienti palermitani e dei loro referenti esterni. In questa ottica s'inquadrava anche l'omicidio del dottor Borsellino, che proseguiva il lavoro. Paolo Borsellino stava per comprendere, probabilmente aveva già individuato, chi aveva voluto l'assassinio di Giovanni Falcone.

Parlando di strategia stragista e dei suoi mandanti, perdonatemi se rimarcherò costantemente due aspetti che sono collegati: i mandanti di determinati delitti non furo
no solo i vertici di Cosa nostra, ma altri esterni all'organizzazione dai quali nacque l'esigenza di perpetrarli. L'assassinio di Ilardo trova ragione nella tutela di tale alleanza. Gli eventi tragici che ne precedettero l'assassinio avevano la stessa finalità. Nel ricordare ancora a tutti che il collaboratore, quando parlava con me, intendeva rivolgersi allo Stato, riprendendo il filo dei suoi discorsi fece riferimento all'esistenza di un terzo mandante mafioso delle stragi, oltre a Provenzano e a Riina: Giuseppe Farinella.

Questi era il capo mandamento di San Mauro Castelverde e fedelissimo alleato dei Corleonesi, poi deceduto nel 2017. La sua longa manus, in questa strategia di colloqui riservati, era l'imprenditore Michelangelo Alfano di Bagheria di cui Farinella utilizzava le importanti relazioni politico-istituzionali a Roma per dialogare con la parte deviata dello Stato e con gli ambienti della massoneria. Alfano aveva coltivato sapientemente queste relazioni nel periodo in cui si era trasferito a Roma proveniente da Messina, città dove aveva riscosso un buon successo imprenditoriale nel settore delle pulizie sui treni in circolazione in Sicilia, ottenendo addirittura il monopolio delle commesse. Per meglio difendersi dall'accusa di contiguità alla mafia mossa dal pentito Salvatore Contorno, della quale era stato riservatamente informato, aveva pensato bene di allontanarsi dalla Sicilia e dare così dimostrazione che non aveva bisogno del supporto del territorio siciliano.

Parlando ancora dei mandanti mafiosi delle stragi, in quei primi anni Novanta, nel sottolineare sempre la diversa caratura e abilità di capo di Provenzano, Ilardo si lasciò
sfuggire un commento sull'arresto di Totò Riina del 15 gennaio 1993, dicendo che dietro quella cattura aleggiavano delle ombre. Incuriosito più che mai dal commento gli chiesi di essere più chiaro, pur ribadendo ancora una volta di voler rinviare ogni approfondimento in sede di collaborazione con il magistrato, colse tuttavia il mio dispiacere. «Colonnello, in Sicilia gli uomini d'onore si vendono o si ammazzano».

Una conferma di queste parole, la trovai anni dopo nel leggere le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè ai magistrati siciliani, quando affermò che Riina era diventato una pedina della trattativa a suggello del nuovo corso intrapreso da Cosa nostra. Significativa, sintomatica di questi intrecci mafia – istituzioni sarà anche la risposta che mi darà Ilardo su Bruno Contrada, nel definirlo: «L'uomo dei misteri, uno degli anelli di congiunzione tra mafia e istituzioni».

Nel riprendere i nostri colloqui sulla situazione attuale disse che Cosa nostra in quel periodo era molto in apprensione per la collaborazione di Salvatore Cangemi con la giustizia, perché questi era a conoscenza di aspetti di quel passato fatto di torbidi intrecci e legami tra mafia e Stato, pertanto era in grado d'infliggere un duro colpo all'organizzazione. Ma non c'era ancora stato alcun riscontro a questo timore. Ilardo per farmi comprendere meglio il discorso aggiunse che poco interessava a Cosa nostra la collaborazione con la giustizia di Giovanni Brusca, perché era a conoscenza solo di fatti recenti. Era invece molto attenta a seguire l'improvvisa religiosità che aveva colto nel carcere di Catania, Benedetto Santapaola. In caso di pericolo, Cosa nostra era pronta a intervenire temendo che questa potesse nascondere desideri di «pentimento» giudiziario. Data la sua lunga «militanza» ai vertici dell'organizzazione, Santapaola era infatti a conoscenza di segrete trame che tali dovevano restare.

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