Il Csm stronca la separazione delle carriere: il parere critico passa con 24 voti contro 4. "Riforma inutile, non migliorerà la giustizia"
Ieri alle 03:54 PM
Il Consiglio superiore della magistratura stronca il ddl sulla separazione delle carriere, la riforma costituzionale – varata lo scorso maggio dal Consiglio dei ministri e attualmente in discussione nell’Aula alla Camera – che, tra le altre cose, introduce nella Carta il principio delle "distinte carriere" di giudici e pubblici ministeri, sdoppia lo stesso Csm e dispone la soluzione dei suoi membri tramite sorteggio. L’organo di autogoverno delle toghe ha approvato a maggioranza, con 24 voti, un parere fortemente critico nei confronti del provvedimento, proposto dai consiglieri togati Antonello Cosentino (della corrente progressista di Area), Roberto D'Auria (dei "moderati" di UniCost), Eligio Paolini (dei conservatori di Magistratura indipendente) e Roberto Fontana (indipendente), più il laico Roberto Romboli, eletto in quota Pd.
Una proposta alternativa, dai toni favorevoli alla riforma e firmata dal laico di Fratelli d’Italia Felice Giuffrè, si è fermata a 4 voti. Il documento approvato cita innanzitutto i numeri dei passaggi dalla funzione giudicante a quella requirente, ormai risibili dopo le riforme che negli ultimi anni hanno imposto limiti rigidissimi: nel 2023 sono diventati pm appena otto giudici su 6.665, lo 0,12%, mentre sono diventati giudici 26 pm su 2.186, l'1,19%. In totale, quindi, a cambiare ruolo sono state 34 toghe su 8.851, lo 0,38%. E si tratta, paradossalmente, del dato più alto degli ultimi cinque anni: dal 2019 al 2023, infatti, i "salti di barricata" sono stati meno di 28 l'anno, appena lo 0,31%.
Sulla base di questi dati il parere del Csm contesta il mantra secondo cui la separazione delle carriere serve a realizzare il principio costituzionale del giusto processo, cioè della "parità delle armi" tra accusa e difesa: se il problema sono i passaggi da un ruolo all'altro, si legge, "la quantità dei cambiamenti di funzione e le regole che li governano sembrano offrire elementi idonei a neutralizzare le preoccupazioni".
Se invece il tema è "di carattere, per così dire, psicologico, vale a dire la circostanza che la natura di parte pubblica del pm e il connesso rapporto di colleganza tra questi e il giudice possa indurre il secondo a dare maggiore credibilità al primo, non risulta del tutto agevole comprendere come la separazione delle carriere possa porre rimedio a questa presunta (ancorché indimostrata) propensione: la riforma lascerebbe, infatti, del tutto inalterata tanto la natura pubblica dell'accusa, quanto la comune appartenenza di giudici e pubblici ministeri all'ordine giudiziario". Peraltro, la tesi dell'appiattimento delle toghe giudicanti sui colleghi requirenti "non sembra trovare riscontro nell'esperienza concreta, sol che si pensi che in più del 40% dei casi le decisioni giudiziarie non confermano l'ipotesi formulata dalla pubblica accusa", si legge.
Il parere ricorda poi le sentenze della Consulta secondo cui il processo penale è caratterizzato "da una asimmetria strutturale tra i due antagonisti principali”, poiché il pm è “un organo pubblico che agisce nell'esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi”, mentre l’imputato “un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali, in primis quello di libertà personale”. Per questo “la funzione requirente deve fondarsi, sia pure muovendo dalla posizione di "parte", su principi e regole di azione comuni a quelli ai quali è ispirata e vincolata l'azione del giudice”. Per quanto riguarda invece il “miglioramento della qualità della giurisdizione”, cioè l’altro obiettivo dichiarato dalla riforma, il collegamento con la separazione delle carriere appare secondo il Csm “di non immediata intellegibilità”: “La relazione illustrativa”, recita il parere approvato, “non fornisce elementi utili a chiarire in che termini la separazione delle carriere possa, direttamente o indirettamente, contribuire al perseguimento del condivisibile scopo di migliorare non solo la qualità, ma anche l'efficienza della giurisdizione”.
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