Lega e Fratelli d'Italia impacchettano il maxi dono per i fondi pensione. Nuovo silenzio-assenso sul Tfr

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Lega e FdI spingono per il maxi regalo ai fondi pensione. Con due emendamenti alla manovra i due partiti propongono l'apertura di un nuovo semestre per la scelta da parte del lavoratore di spostare il trattamento di fine rapporto dall'azienda alla previdenza complementare con la regola del silenzio-assenso. In sostanza un dipendente che ha già scelto di voler tenere la liquidazione in azienda dovrà esplicitamente ribadirlo, altrimenti i soldi passeranno, in automatico, al fondo pensione di riferimento. Il trasferimento “d’ufficio” riguarderebbe i versamenti effettuati da quel momento in poi (non quanto già accumulato).

L'emendamento a prima firma di Tiziana Nisini indica la finestra tra il primo aprile e il 30 settembre 2025; quello di FdI a firma di Walter Rizzetto scatta invece già il primo gennaio. In assenza di un'indicazione da parte del lavoratore, passati i 6 mesi, il datore di lavoro, secondo entrambe le proposte, trasferisce il Tfr ai fondi pensione. Si cerca di mettere le mani sui Tfr di quei 10 milioni di dipendenti che hanno scelto di non destinarli ai fondi. Un’operazione che era già stata ipotizzata dalla ministra del Lavoro Marina Calderone.

L’emendamento viene motivato con la volontà di far capire meglio ai lavoratori veri, o presunti, vantaggi della previdenza complementare. A tal fine il governo metterà a punto una sorta di manualetto con le istruzioni che il datore di lavoro sarà tenuto ad impartire ai dipendenti prima che facciano la loro scelta.

Un minimo di storia. Con la decisione del 1996 di passare gradualmente dal più generoso sistema pensionistico retributivo a quello contributivo, più sostenibile per i conti pubblici, si sono anche poste le basi per consegnare le giovani generazioni ad un futuro di pensioni da fame. Con il contributivo, infatti, un lavoratore percepisce una pensione parametrata ai contributi effettivamente versati nel corso della sua vita lavorativa. Tuttavia in un paese come l'Italia, con stipendi mediamente molto bassi (e quindi anche contributi) ed elevata flessibilità, che si traduce in discontinuità di impiego e "buchi" di versamenti contributivi, il rischio, molto concreto, è quello di trovarsi a fine carriera con la prospettiva di assegni previdenziali di poche centinaia di euro.

Una delle soluzioni pensate per metterci una toppa è stata quella di incanalare il Tfr che si accumula nel corso della vita professionale verso investimenti di vario genere, dai titoli di Stato alle azioni etc. Ciò attraverso fondi pensione aperti o di categoria, a volte gestiti dai sindacati, con vari livelli di rischio che possono essere scelti dal lavoratore. La scommessa è che borse e mercati possano offrire rendimenti superiori a quello della semplice rivalutazione parametrata all'inflazione che si applica al Tfr lasciato in azienda. Ma non sempre va così. Nel 2022, anno di alta inflazione e debolezza dei mercati, il Tfr rimasto in azienda ha, come si dice in gergo, ampiamente sovraperformato quello investito sui mercati.

In linea di massima è vero che investire i soldi dovrebbe portare vantaggi in termini di rendimenti, soprattutto in un'ottica di lungo periodo come quella di un lavoratore ad inizio carriera. Soprattutto in protratti periodi di inflazione molto bassa, come accaduto dal 2014 al 2021. Inoltre, se si sceglie la destinazione ai fondi, il datore di lavoro è tenuto ad una compartecipazione nel versamento della quota. Al momento, su circa 20 milioni di occupati che si contano in Italia, poco meno della metà ha optato per i fondi pensione. Altri 10 milioni hanno lasciato il Tfr in azienda. Conferire la liquidazione in un fondo è una scelta definitiva che comporta più vincoli al successivo utilizzo dei soldi.

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