Samuel Beckett e le tecnologie digitali: il fenomeno degli spettacoli tecno-teatrali a lui ispirati

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In genere si parla, a ragione, della produzione drammatica di Samuel Beckett come di un percorso unitario affetto sempre più dall’afasia e caratterizzato da un’implacabile scarnificazione progressiva della forma-dramma, che disintegra uno dopo l’altro tutti i suoi tradizionali punti d’appoggio (intreccio, conflitto, dialogo, parola, movimento e, infine, anche il corpo), per sfociare nella dimensione estremamente compressa, minimale, in realtà essenziale, dei "dramaticules".

Tuttavia corriamo il rischio di costruire un’immagine falsata del teatro di Beckett se ci limitiamo a spiegare le trasformazioni che intervengono nella sua scrittura drammatica restando all’interno della dimensione letteraria. Al contrario, per comprendere realmente i cambiamenti profondi che si producono nei processi di composizione delle sue pièces (e non solo per la verità), da un certo momento in poi, è indispensabile prendere in considerazione anche e soprattutto la sua crescente attività di regista, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta.

Così facendo, al posto di una unitaria progressione minimalista, scopriamo una discontinuità, addirittura una rottura, che risale all’epoca della composizione e dei primi allestimenti di Commedia (Play), fra 1962 e 1964.

Fu soprattutto grazie a Commedia, e al lavoro in prima persona per i suoi numerosi allestimenti (in francese, tedesco e inglese) dal 1964 in poi, se Beckett cambiò il modo di concepire un testo drammatico, il suo processo di composizione e il suo rapporto con la scena. Mentre, fino a quel momento, egli era rimasto fondamentalmente un drammaturgo preventivo (con la parziale eccezione di Aspettando Godot), preoccupato soprattutto che la messa in scena realizzasse fedelmente ciò che l’autore aveva fissato una volta per tutte sulla pagina, con Commedia Beckett diventa sempre più cosciente del fatto che è impossibile considerare definitivo un copione prima che le prove si concludano e, di conseguenza, egli si mostra sempre più disponibile a modificare, riscrivere, tagliare.

Indubbiamente, l’influenza esercitata dall’esperienza della scena sulla sua scrittura drammatica (e non solo) è enorme. Né dobbiamo trascurare il fatto che l’attività registica di Beckett si avvia nel contesto di una sua progressiva apertura, a partire già dagli anni Cinquanta, agli altri mezzi audiovisivi, dalla radio al cinema, alla televisione, passando inoltre per la pantomima, la danza e la musica.
La sperimentazione che compie confrontandosi con i diversi media ha di particolare (eccezionale) che egli non si accontenta di usarli come semplici veicoli, supporti materiali dei suoi testi, ma cerca di sondarne le potenzialità linguistiche e drammaturgiche specifiche, arrivando sempre ad esiti di una innovatività sorprendente. Basterebbe pensare ai videoplays, che non a caso hanno sempre attirato un notevole interesse critico.

Un bel libro recente di Grazia D’Arienzo (Rimediazioni. L’eredità beckettiana nel teatro digitale(1995-2009), Accademia University Press, 2024) indaga con rigore "un corpus circoscritto, quello degli spettacoli tecno-teatrali ispirati o influenzati dall’opera di Samuel Beckett, prodotti in Europa e negli Stati Uniti fra gli anni Novanta del XX secolo e il primo decennio del XXI". Giustamente non viene ristretto il campo ai soli lavori teatrali ma si prendono in considerazione anche progetti realizzati a partire da prose, poesie e testi pensati per la radio, il cinema e la televisione.

Alcuni dei casi di studio riguardano artisti italiani: dal compianto Paolo Rosa, e il suo Studio Azzurro, a Gabriele Frasca e Roberto Paci Dalò (Giardini Pensili) e a Michele Sambin e Pierangela Allegro di Tam Teatromusica. Si tratta di esempi che vanno dalla stagione teatrale di fine secolo, che vede il passaggio dai dispositivi analogici alle tecnologie digitali, a quella successiva, per la quale si può cominciare a parlare di un vero e proprio "teatro digitale".

Lascio al lettore di avventurarsi dentro queste diverse esperienze non di rado avvincenti. Per quanto mi riguarda, chiudo rilevando come sia costante, nelle riflessioni dei registi e degli altri creatori coinvolti, l’impressione di battere strade che forse lo stesso Beckett, per la sua insaziabile curiosità di coraggioso sperimentatore, avrebbe cercato di percorrere se avesse avuto a disposizione queste nuove tecnologie.

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