Usa 2024, strategie di Trump e Harris a confronto: cosa ha funzionato e cosa no
Oggi alle 08:11 AM
Donald Trump è stato rieletto presidente degli Stati Uniti, con un margine di voti che nessuno poteva prevedere. Il candidato repubblicano ha ottenuto infatti 276 grandi elettori, superando i 270 necessari per vincere la presidenza. Kamala Harris ne ha ottenuti 223. Il dato storico che balza di più all'occhio è però quello del voto popolare, con Trump che ha ricevuto 71,5 milioni di voti, mentre Harris ne ha ricevuti 66,6 milioni a scrutinio avanzato ma non ancora concluso.
Vediamo le strategie adottate dai due contendenti alla presidenza, cosa ha funzionato e cosa no.
“È una vittoria mai vista. Abbiamo fatto la storia", ha detto Donald Trump nel suo victory speech al Convention Center di Palm Beach (Florida). È proprio la sua capacità di cavalcare i fatti storici, la parte più potente della strategia che lo ha riportato alla Casa Bianca.
La campagna di Trump è iniziata con un fatto storico, quello del 6 gennaio 2021, data dell'assalto al Campidoglio da parte dei suoi sostenitori, per contestare il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 che videro Joe Biden vincitore.
Trump ha sempre definito quelle come elezioni “rubate". Un mantra che, forte dell'impatto emotivo dell'insurrezione tentata a Washington, è riuscito a penetrare nelle coscienze di una fetta importante di America.
Un azzardo, una forzatura, portata avanti con convinzione negli anni nonostante la pericolosità di quella retorica e le polemiche internazionali che ha scatenato. Una narrazione che però, alla fine, è servita a far passare Trump, agli occhi dei suoi, come difensore – e non come nemico – della democrazia. Definirlo fascista, oppure paragonarlo a truffatori, imbroglioni e predatori sessuali, non ha convinto la maggioranza del popolo americano che il tycoon fosse un pericolo per la democrazia.
Il movimento MAGA, i trumpisti più radicali, hanno sempre pensato che Trump fosse il salvatore della democrazia e dei diritti delle persone comuni, contro il Deep State, un sistema corrotto che tirerebbe i fili del potere statunitense.
A rafforzare questa immagine del Trump difensore della democrazia, anziché suo assassino, è stato un secondo fatto storico: l'attentato ai suoi danni in Pennsylvania del 13 luglio scorso. Come ricorderete, la testa di Trump fu mancata per un soffio dal proiettile sparato dal suo attentatore, Thomas Matthew Crooks. La foto del candidato 78enne che si rialza di scatto con l'orecchio (e il volto) insanguinato, mentre con il pungo alzato incita la folla a combattere, è l'immagine simbolo di questa campagna.
“Dio mi ha salvato la vita per una ragione: la ragione è salvare il Paese e riportare l’America alla sua grandezza”, ha ripetuto oggi nel suo discorso della vittoria, come fatto più volte nei suoi comizi dopo il tentato assassinio. Una narrazione potente, soprattutto per un elettorato credente come il suo. Come può il nuovo 'Messia' essere un nemico della democrazia? Agli occhi di buona parte degli americani era sempre più il salvatore della nazione.
Benché Trump sia rimasto Trump anche dopo l'attentato, coi suoi toni feroci e gli insulti agli avversari, l'atmosfera attorno a lui è sembrata meno cupa rispetto alle scorse campagne. Qui veniamo alla seconda strategia, quella degli endorsement. Positiva per Trump, inutile e quindi negativa per Harris.
Steve Bannon è rimasto in galera giusto il tempo che gli ha impedito di rovinare la campagna di Trump. Il ruolo di suggeritore o uomo ombra è stato interpretato da un decisamente più rassicurante Elon Musk. L'endorsement di Musk si è rivelato efficace, anche perché è stato estremamente concreto: non si è limitato a una dichiarazione sul red carpet. Musk ha donato finora quasi 119 milioni di dollari a un PAC (comitato che raccoglie donazioni per una campagna) che ha istituito per supportare Trump, secondo i documenti depositati presso la Commissione elettorale federale. È apparso con Trump a comizi e ha ospitato un’intervista elogiativa con lui su X, la sua piattaforma social di sua proprietà. Il PAC di Elon Musk ha anche pagato gli addetti al porta a porta.
Kamala Harris ha ricevuto endorsement da celebrità del calibro di Taylor Swift, Oprah Winfrey, Lady Gaga, Katy Perry e molti altri. Evidentemente, come dimostrato ancora una volta, l'influenza degli artisti rimane limitata al campo dell'intrattenimento e della moda. In politica servono volti noti che siano a loro volta impegnati attivamente sui temi politici, come fa Elon Musk da qualche anno. Ricorderete anche il suo intervento alla festa di Fratelli d'Italia, oltre alle numerose uscite che lo hanno reso un rappresentante dei sovranisti.
Un concorrente di Musk, altro miliardario del tech e dell'industria spaziale, che avrebbe potuto sostenere Kamala Harris è Jeff Bezos, ma ha scelto di non farlo, bloccando l'endorsement sul Washington Post, di sua proprietà. Il motivo? Secondo Bezos, interrompendo la tradizione degli endorsement del WP, si tutelerebbe la fiducia dei lettori nei giornali. Fiducia in calo per il terzo anno consecutivo negli Stati Uniti, dove il 36% degli adulti dice di non avere alcuna fiducia nei media. Un altro 33% degli americani esprime “poca” fiducia.
Proprio questa scarsa fiducia nei media tradizionali ha giocato a favore di Trump in un modo inaspettato, legato ai sondaggi.
Come sappiamo, i sondaggi davano i due sfidanti testa a testa. Un errore che è stato causato dalla difficoltà di rilevare le opinioni dei sostenitori di Trump, che fin dal 2016, proprio per l'antipatia che hanno verso i media tradizionali, si rifiutano spesso di partecipare ai sondaggi. Questa reticenza ha portato ancora una volta a una sottostima del supporto per Trump nei sondaggi pre-elettorali.
L'ipotesi di un'elezione che si sarebbe decisa per una manciata di voti può aver spinto i sostenitori di Trump a una partecipazione al voto maggiore, rispetto a quella si sarebbe avuta di fronte a sondaggi favorevoli per il loro candidato. L'errore dei sondaggisti può quindi aver aiutato Trump.
Kamala Harris sembrava la candidata perfetta per i Democratici. Donna e nera, era il simbolo dell'inclusività promossa dal mondo progressista americano. Un'inclusività su cui si è calcata troppo la mano, diventando escludente per chi non rientra nelle minoranze.
Harris puntava sul voto delle donne. Gli exit polls di Cnn ci dicono che la maggioranza delle donne bianche ha però votato per il suo avversario (52%). Le donne nere hanno invece risposto compatte alla sua chiamata (92%).
Anche il tema dell'aborto ha prodotto risultati contrastanti per i Democratici. Ha fatto vincere il voto delle donne non sposate (60%), ma ha fatto perdere quello delle donne sposate, che hanno scelto al 50% Trump, contro il 49% di Harris.
La strategia di puntare così tanto sulle donne, escludendo di conseguenza gli uomini, deve aver preoccupato la stessa Kamala Harris, che è stata beccata in un bar mentre confessava alla governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer, la necessità di essere più presente fra i maschi.
Un altro problema che ha minato la forza della candidata Harris è la sua contiguità con il presidente Joe Biden, di cui lei è vicepresidente. Biden si è dovuto ritirare dalla competizione elettorale, vista la sua scarsa popolarità (il 57% degli americani non approva il suo operato), e Kamala Harris non ha mai saputo rappresentare un cambiamento credibile rispetto all'uomo con cui sta governando.
Durante un'intervista a The View, circa un mese fa, la vicepresidente Kamala Harris ha dichiarato che non ci sono differenze significative tra le sue posizioni politiche e quelle del presidente Joe Biden. Alla domanda su cosa avrebbe fatto diversamente rispetto a Biden negli ultimi quattro anni, Harris ha risposto: “Non c’è nulla che mi venga in mente… e ho partecipato alla maggior parte delle decisioni che hanno avuto un impatto.”
Una risposta catastrofica. Eppure Harris si è mostrata generalmente brava in tv, vincendo anche il dibattito con Trump. Ha mostrato coraggio e determinazione nel partecipare a interviste su canali ostili, come Fox News. Trump ha invece scelto un approccio diverso sui media. Ha rifiutato un secondo confronto con Harris e, da quel momento, si è fatto intervistare solo da testate amiche. Una strategia che in un primo momento poteva esprimere paura, debolezza, da parte del candidato. Le cose non stanno così.
Una delle regole non scritte della comunicazione politica dice che il candidato in vantaggio farebbe bene ad evitare confronti tv con gli avversari, politici o giornalisti che siano. È meglio amministrare il vantaggio senza strafare, piuttosto che rischiare di commettere errori. È il candidato in coda che invece deve essere disposto a rischiare, pur di avere occasioni di visibilità e, magari, mettere a segno qualche punto importante e alimentare la rimonta. Evidentemente, gli staff delle due campagne avevano informazioni più chiare su chi fosse realmente in vantaggio, rispetto a quelle fornite dai sondaggi pubblici.
Chi perde ha sempre qualcosa da imparare. Quello che il Partito Democratico americano dovrebbe riconoscere è che una donna non è solo una femmina, un nero non è solo una vittima di razzismo, un omosessuale non è solo uno che affronta discriminazioni per il suo orientamento. Ciascuno di questi individui è una persona con bisogni che, come per tutti gli altri, toccano ogni area della vita pubblica e privata, come l'economia, la sicurezza, la salute, il lavoro, l'istruzione. Ciascuno di loro ha una vita fatta di esperienze, idee, talenti e aspirazioni uniche, che vanno oltre le etichette.
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