Figli e nipoti dei sopravvissuti all'Olocausto raccolgono il testimone: "Raccontiamo ai ragazzi l'antisemitismo, le complicità, la persecuzione di tut
Ieri alle 04:54 AM
"Ci chiediamo cosa succederà alla memoria della Shoah quando scomparirà anche l'ultimo sopravvissuto”. È l’interrogativo che nel 1998 si era posto lo scrittore Elie Wiesel, uno dei più noti sopravvissuti all’Olocausto. “I suoi figli saranno qui per continuare a testimoniare", si era risposto. La stessa risposta che si danno oggi tanti figli ma anche nipoti di chi ha vissuto l'assurdità del regime fascista e nazista o ha patito la deportazione nei campi di sterminio. Sono i "Figli della Shoah", così hanno scelto di chiamarsi quelli che fanno parte dell'omonima associazione fondata da tra gli altri da Goti Bauer, Alberto Foà, Liliana Segre ed ErminioWachsberger. Sono loro che, quando anche gli ultimi testimoni ancora viventi non ci saranno più, daranno voce continuando a fare memoria nelle scuole, nelle comunità, con la parola scritta e orale. Da anni già lo fanno. Hanno preso in mano il testimone lasciato dai loro genitori o dai loro nonni e vanno nelle classi, organizzano corsi di formazione per i docenti, mostre ed altro ancora.
"Mio nonno Nedo, quando ha iniziato a parlare nelle scuole diceva: dedico questo mio sforzo ai miei figli e ai figli dei miei figli", ci racconta Davide Fiano, 27 anni, dottore di ricerca nell'ambito del diritto pubblico e appassionato di recitazione. Lui rappresenta la cosiddetta terza generazione. Suo padre, Emanuele, ex deputato del Partito Democratico, ha raccolto per primo l'impegno a raccontare la vita del padre morto nel 2020. Davide non poteva fare a meno di proseguire: "Sono cresciuto con in testa nonno e Liliana Segre che si chiedevano cosa sarebbe stato dopo di loro. Ho iniziato fin da piccolo a capire. All'inizio con piccole scoperte: ascoltando i discorsi quando andavamo a pranzo dai nonni; osservando il tatuaggio sul braccio o intuendo qualcosa da certe reazioni di nonno. La prima volta che l'ho sentito parlare in pubblico ero io stesso uno studente". Ed è lì che il giovane Fiano sente parlare di campi di sterminio. "Ho letto "Dopo l'ultimo testimone" di David Bidussa e mi son convinto a fare la mia parte. Vado nelle scuole ma so che la mia non può essere una testimonianza vera e propria, è una riflessione su alcuni passaggi: l'inizio dell'antisemitismo, la complicità dei fascisti nella deportazione e l'indifferenza di quella parte d'Italia che non ha voluto vedere".
Ma c'è anche chi quel periodo l'ha conosciuto direttamente da figlio come Dario Foà, nato a Napoli il 27 luglio 1931, nipote del rabbino capo di quella piccola Comunità ebraica. Quando lo contattiamo ha da poco terminato una diretta online con una scuola. Alla sua età fatica a prendere un treno o un volo aereo ma la tecnologia è arrivata in soccorso. Accanto a lui c'è la moglie, Aida Cabibbe, con una storia altrettanto singolare: il padre, ai tempi un giovane impiegato del Monte dei Paschi di Siena, in seguito alle Leggi per la difesa della razza venne licenziato dalla sera alla mattina il 17 novembre 1938. Da questo momento la famiglia si trasferì a Bologna per scappare poi a Teglio, e infine in Svizzera attraversando le Alpi a piedi in pieno inverno.
"Ricordo benissimo quella sera che la mamma – ci spiega Dario – ci chiamò e disse che l'indomani non sarei più potuto andare a scuola. Avevo sette anni. Al momento non mi resi conto ma capii che stavo vivendo un momento strano. Tra l'altro un decreto stabiliva che se ci fossero stati almeno dieci bambini ebrei sarebbe stato possibile allestire una sezione speciale nelle scuole". L'allora direttore della "Vanvitelli" con un sotterfugio iscrisse un fratello di Dario di soli cinque anni: "In quell'aula entravamo e uscivamo senza vedere nessuno. Facevamo motoria lì – spiega il 94enne – perché non dovevamo vedere gli altri bambini. Ricorderò per sempre la sensazione che provavo il sabato quando ci portavano nell'aula magna per la propaganda fascista; noi ebrei dovevamo stare in fondo, tra noi e gli altri c'erano alcune file vuote che ci impedivano di entrare in contatto". Nel 1988 la scoperta al "Vanvitelli" dei registri con la sezione speciale: "Ci chiamarono di nuovo là. Rimisi piede in quell'aula e da quel momento ho iniziato a raccontare la mia storia ai più giovani".
E poi c'è anche chi come Daniela Dana, presidente dell’"Associazione Figli della Shoah" e instancabile organizzatrice, sta dedicando la vita al fare memoria, grazie alla storia della zia del marito Natalia Tedeschi finita nel campo di concentramento di Auschwitz con la mamma e la nonna: "Quest'ultime non sono più tornate ma Natalia sì e per anni ha narrato quello che le era accaduto ai più giovani". Oggi tocca a Daniela, che fa parte di una delle famiglie ebree che nel 1956 dovettero fuggire dall'Egitto in seguito alla nascita dello Stato d'Israele. "Il dolore è passato con il tempo ma qualcuno dei sopravvissuti o dei loro figli preferisce restare in silenzio. Altri hanno scelto di aiutarci. Il tema del passaggio del testimone non riguarda solo la memoria ebraica ma anche quella politica e di tutte le minoranze che hanno subito la persecuzione nazifascista, ad esempio. Come dobbiamo comportarci con una storia che ci rimanda sempre più lontano dalla realtà dei giovani?". La presidente da ormai vent'anni si dedica alla formazione non solo dei ragazzi ma anche dei docenti: "Dobbiamo far leva sullo studio delle fonti storiografiche. Quello che oggi i ragazzi chiamano fact-checking ci aiuterebbe a far capire la complessità di ciò che è accaduto ed evitare banali semplificazioni dell'attualità. La Giornata della memoria ricorda non solo gli ebrei deportati ma anche i rom, i disabili, gli oppositori politici, gli omosessuali finiti nei campi di sterminio. Il 27 gennaio non è il giorno degli ebrei ma è il giorno della responsabilità".
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