Se le parole di Trump non sono sparate, ma un programma politico, non vanno sottovalutate

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Come vanno interpretate le parole di Donald Trump sull'acquisizione della Groenlandia, l'inglobamento del Canada, il ritorno del canale di Panama agli Usa? E le sue promesse in campagna elettorale di attuare la più grande deportazione della storia, espellendo gli immigrati irregolari? Sono provocazioni volte a catturare l'attenzione dei media, a polarizzare il dibattito? Sono solo frasi volte a esprimere il rancore accumulato da strati sociali che si sentono non rappresentati, se non esclusi, dalla vita del Paese? O devono invece essere intese come un vero e proprio programma politico?

Trump si è comportato come un “uomo di spettacolo”, come un attore che recita la parte di chi rifiuta il politicamente corretto, di chi dice finalmente le cose come stanno – evitando le fastidiose e noiose mediazioni della democrazia parlamentare – dell'uomo forte che va avanti per la sua strada, sfidando tutto e tutti? O, al contrario, crede veramente in quello che dice? Se fosse tutto parte di uno spettacolo, una sorta di prova di abilità teatrale – che offre la possibilità di dire e fare cose negate alle persone comuni, a chi non è sul palcoscenico – non dovremmo preoccuparci. Che senso ha rimproverare a un attore di interpretare bene, in modo convincente, la parte del cattivo? Nel secondo caso, se Trump credesse veramente in quello che dice, ci troveremmo in una situazione imprevista e, forse, imprevedibile.

Tutti noi ci siamo trovati molte volte ad assistere ad affermazioni roboanti di leader politici. Uno dei casi più evidenti di come si possa però passare dalle parole ai fatti – in un contesto storico certo molto diverso, ma accomunato da un'analoga perdita di credibilità del sistema democratico – è rappresentato da quanto avvenne tra la Grande guerra e l'avvento del fascismo. I settori interventisti più radicali dall'autunno del 1914 si impegnarono allo stremo per spingere la nazione a partecipare al conflitto, e poi per convincere – e costringere – gli italiani a combattere fino alla vittoria. Pieni di rabbia per la consapevolezza di essere minoranza, sia in parlamento che nel Paese, cominciarono a progettare l'uso dei mezzi più estremi per raggiungere il loro obiettivo: Mussolini, ad esempio, disse e scrisse di ritenere necessario “assassinare i partiti”, “fucilare alla schiena” qualche dozzina di deputati, mandarne altri all'ergastolo ed estirpare il parlamento come un “bubbone pestifero”. Altri proposero la creazione di campi di concentramento per rinchiudervi i disfattisti, ovvero i socialisti; l'abolizione della libera stampa, da sostituire con un bollettino controllato dal governo; la nascita di una rete spionistica di massa per sorvegliare l'intera popolazione; l'imposizione della disciplina militare all'intero Paese; la creazione di squadre paramilitari per aggredire gli avversari politici.

Queste affermazioni erano solo propaganda? Solo in parte, perché in realtà esprimevano anche un progetto di governo della società. E infatti, quando si sarebbero create le condizioni adeguate con la nomina di Mussolini a capo dell'esecutivo, alla fine del 1922, quelle proposte si trasformarono rapidamente in un programma politico. Gli strumenti immaginati tra il 1914 e il 1918 dagli interventisti più estremi, molti dei quali avrebbero aderito al fascismo, divennero così la base per la costruzione del regime totalitario.

Anche la Marcia su Roma non fu un inaspettato colpo di mano. Il futuro duce, infatti, ne parlò pubblicamente in più occasioni. Basti pensare a quanto scrisse il 2 ottobre del 1919, un mese dopo la presa di Fiume da parte di D'Annunzio, e un anno prima della marcia sulla capitale: “Bisogna convincersi che le istituzioni italiane sono al crepuscolo… Molta gente spasima per non poter andare a Fiume, ma io mi domando: non c’è dunque più nessuno che conosca la strada di Roma? La requisizione delle armi [voluta dal governo dell'epoca] ha dunque spogliato i cittadini di tutte le rivoltelle, di tutte le bombe a mano, di tutti i pugnali? Ce ne sono ancora. In quest’epoca straordinariamente dinamica, si entra oggi alle carceri e si esce, domani, in trionfo”.

Le parole di Trump, e dei radicali come lui, non vanno dunque sottovalutate. E noi dobbiamo abbandonare il pregiudizio che la democrazia rappresenti necessariamente il nostro futuro. Che il metodo democratico del confronto sia ormai scontato e accettato da tutti. Che quando le parole di un leader politico escono dall'alveo della democrazia, siano in realtà solo propaganda per bucare lo schermo, per catturare l'attenzione e condizionare l'agenda politica. Purtroppo, come la storia ci insegna, quelle parole possono essere invece l'espressione anche di un progetto che il sistema democratico è in grado di respingere solo se dispone di efficaci anticorpi. Come sempre, la qualità della democrazia è legata alla qualità dell'impegno di ognuno di noi per costruire una società più equa, per allargare gli spazi di libertà e per resistere a chi li vuole limitare, se non cancellare.

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