L'arte del palestinese Batniji alla vigilia del Giorno della Memoria: un'essenzialità disarmante

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Per non farsi ingoiare da un mondo che sembra impazzito, ci si può aggrappare giusto all'arte. Un intervento straordinario dell'artista palestinese Taysir Batniji alla 17esima monumentale Biennale d'Arte di Lione, che si è chiusa all'inizio del '25, lasciava quasi intuire quel che sta capitando tra Gaza e Tel Aviv e il resto del mondo proprio in queste ore. Cioè alla vigilia del Giorno della Memoria e di un anniversario della liberazione di Auschwitz che è pure l'80esimo ma anche il primo così controverso, con tanto di tragico conflitto che ancora si consuma a due passi, tra Ucraina e Russia.

Per la prima delle nuove opere di Batniji a Lione si dovevano aprire degli spessi tendoni scuri e s'entrava in una stanza buia e vuota. Sul pavimento era riprodotto con pittura fluorescente azzurra lo scheletro della fittissima rete stradale di Gaza così com'era prima della distruzione in corso. Altrettanto semplice e diretto il titolo, Al Anqaâ (Le Phoenix) – 2024, che allude appunto al mito arcano della Fenice, l'uccello che rinasce dalle fiamme, sempre.

Si passava così al grande spazio con tre opere che Batniji ha costruito negli anni, sulle pareti, ma al centro, anche delle attenzioni, c'era una sorta di stanza interna ricavata con pannelli di legno. All'interno d'un nitido biancore quasi esplodeva per il riverbero della luce l'altra nuova opera, certamente tra le più toccanti della stessa esposizione Biennale lionese: duecento stampe su fogli formato A4 di foto di piccoli mazzi di chiavi, appese con un ordine rigoroso sui muri e tutte accompagnate da brevi didascalie, sottilmente scritte a mano in matita, che indicavano i nomi dei proprietari e le case relative, appena abbandonate o distrutte a Gaza.

Il contrasto tra le vite vere che s'intuivano e la catalogazione con standard da foto industriali era incredibile. Un solo esempio, caro all'artista: tre chiavi tenute insieme da un anello connotato dall'aggiunta di un piccolo Handala, il buffo bimbo-straccione in fuga che è diventato uno dei simboli della tragedia palestinese, e accanto si può leggere: 'Abd El-Rahman Shamallakh, abitante del quartiere Sheikh Ijlin, a sud-ovest della città di Gaza. Rifugiato il 14 ottobre 2023 ad Al-Mawasi a Khan Yainès. La sua casa è stata distrutta il 30 marzo 2024'.

Di una disarmante essenzialità anche il titolo dell'intera opera, Au cas où #2, che si può tradurre In caso o #2, dove l'hashtag con il numero due sottolinea l'ostinato attaccamento alla casa perduta, come se tenersi le chiavi per un ipotetico rientro, in un secondo momento davvero quasi impensabile, sia anche una forma di reazione alla terribile 'caduta' (caso e caduta sono insiti nello stesso termine ambivalente latino, importato da un analogo greco).

Non c'è bisogno d'aggiungere che la stretta al cuore che si provava durante questo percorso artistico presentato da Taysir Batniji, come si può intuire ancora adesso (magari sfogliando le schede online delle opere, a partire dalla prima stanza-mappa), rievocava le emozioni provate durante le visite ai Lager museificati, piuttosto che certe foto e opere sull'Olocausto.

Un effetto per certi versi consonante all'esperienza di visita al 'Palestinian Museum of Natural History and Humankind', progetto di Khalil Rabah che la Fondazione Merz di Torino ha ospitato nel 23/24, altrettanto straordinaria prova di catalogazione artistica della realtà presente e della cultura di questo popolo. Al di là dello scontro più che legittimo sull'uso delle parole, 'il genocidio', 'la legittima reazione', 'l'operazione speciale' e la definizione di 'criminale di guerra', la realtà nuda e cruda è sotto gli occhi di tutti, in Palestina come in Ucraina, in Myanmar e in tutte le guerre che sicuramente altri bravissimi artisti, come Batniji, avranno già provato a rappresentare.

Anzi, si dovrebbe promuovere una bella mostra internazionale per mettere a confronto varie opere da tutti i Paesi in guerra, accostando l'anelito artistico dei nemici e di tutti gli sconfitti. Si potrebbe, anche se un'intrigante sentenza di Adorno ammoniva: 'Non si può più fare poesia dopo Auschwitz'. L'atroce 'disumanizzazione' è ancora nel vento e il vento fa i suoi giri, anche paradossali. 80 anni dopo, nel tristemente diffuso e sempre più disinvolto 'tradimento della memoria' del Male assoluto della storia, soltanto l'arte e la poesia ci possono ricordare di ricordare.

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