Le notizie su Ramy sono sempre relegate a fine tg. Ma non è cronaca: è politica di primo piano
Oggi alle 12:04 PM
Ieri studenti e polizia si sono scontrati a Torino per i fatti emersi in relazione alla morte di Ramy Elgaml. Oggi è iniziato il coro dello scandalo e delle condanne. C'è da stupirsi, al contrario, che di fronte alle circostanze che emergono sulla morte del giovane milanese non stia accadendo molto di più. È evidente che in Italia non siamo abituati alla rabbia sociale molto più amara che eventi del genere possono provocare.
La risposta alla comunicazione radio che annuncia la fatale caduta dello scooter – "Bene!" – mi ha fatto ricordare la frase "uno a zero per noi"pronunciata da una poliziotta quando è stato ucciso Carlo Giuliani a Genova.
Diverse personalità politiche dichiarano che le proteste di Torino, o altre che verranno, assumono forme “inaudite” e "intollerabili” perché hanno fatto bersaglio di oggetti gli edifici che ospitano le attività delle forze dell'ordine o gli agenti che le difendevano. Intollerabile è invece che le notizie riguardanti Ramy continuino ad essere relegate a uno scampolo di minuti a fine telegiornale, come se si trattasse di cronaca quando questa è politica, e di primissimo piano.
Le redazioni, inoltre, non lesinano commenti didascalici e ridondanti agli audio dei militari, dove si sottolinea che le frasi degli inseguitori erano ora "reazioni istintive", ora erano proferite "senza sapere quanto grave fosse l'incidente". Una forma di deferenza verso i carabinieri, o forse un timore mal riposto nell'esercitare una critica aperta e libera alle forze dell’ordine – ciò che ci è invece perfettamente consentito dalle leggi e garanzie per cui hanno lottato le generazioni passate.
Il problema è profondo. Ogni notte ha luogo un numero elevato di inseguimenti, pedinamenti, fermi, controlli e arresti. Della maggior parte di questi noi non conosciamo nulla. Il loro racconto è affidato alla redazione dei verbali degli agenti stessi e la stessa magistratura deve basarsi su queste sole fonti. In casi eccezionali un inseguimento aggressivo, un interrogatorio muscolare o l’uso di un’arma d’ordinanza finiscono male. Allora i riflettori si accendono: ma senza sottolineare che quella potrebbe essere la goccia del vaso immenso che ha fatto traboccare.
Un abuso emerge perché qualcuno muore, perché c’era una telecamera o perché chi ne era vittima era un cittadino in grado di rivolgersi alla stampa o pagarsi un avvocato. Molti di coloro che incontrano le forze dell'ordine non possiedono tuttavia le garanzie della cittadinanza, altri non conoscono la legge e quindi i limiti delle pretese che possono avanzare gli agenti di pubblica sicurezza nei confronti di un cittadino; altri infine sono intimoriti da una narrazione pubblica che riproduce il mito della polizia in prima linea per la difesa dei più deboli, avvalorata prevalentemente, oltre che da comizi politici, da milioni di euro spesi in soap opera che raccontano di innamorati e amanti col distintivo. L'amore è una cosa bella, ma in questo caso noi dobbiamo moltiplicare l’abuso che emerge nel caso eccezionale per tutte quelle volte in cui l'assenza di prove, la distruzione eventuale delle testimonianze e la presunzione di impunità comunicativa e istituzionale induce individui in divisa a tenere comportamenti pericolosi, violenti o criminali.
Per questo le manifestazioni pubbliche e di piazza contro gli abusi e gli omicidi compiuti da carabinieri e polizia, lungi dall'essere un problema, sono fondamentali: esse hanno lo stesso significato storico di quelle contro i femminicidi e le violenze di genere, e possono cambiare la nostra società grazie a una presa di coscienza generale che l'Italia ha rimandato da troppo tempo. La mobilitazione di piazza, inoltre, non è qualcosa che si possa contrapporre alla ricerca della giustizia nelle sedi legali. Le due cose sono complementari ed entrambe irrinunciabili. La sfida processuale è irta di ostacoli quando gli indagati o gli imputati sono coloro che redigono i verbali, maneggiano le prove, forse commettono dei delitti e hanno stretti o stabili rapporti di collaborazione con alcuni magistrati. Tuttavia, come hanno dimostrato le battaglie per Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, è nella procedura penale che emerge almeno in parte il dettaglio microscopico, e per questo tanto più istruttivo, delle pratiche di violenza e omertà.
Non è la magistratura, tuttavia, a dover trarre le debite conclusioni sociologiche, storiche e politiche da fatti di sangue di questo genere. Questo compito è della società tutta, a partire da chi abita le città e i quartieri dove queste e altre prevaricazioni – ad opera della polizia o di chiunque altro – avvengono. I giornalisti e gli intellettuali dovrebbero invece dedicare più attenzione a queste tematiche e avere più coraggio, comprendendo che la morte in tali circostanze di un giovane milanese di seconda generazione deve occupare il centro della comunicazione pubblica e del dibattito in Italia. Forse non è stato messo a fuoco cosa attende la società futura se forti ed estese mobilitazioni, sociali e culturali, non iniziano a risolvere questo problema, qui e ora.
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