Oliviero Toscani, l'artista e provocatore che ha segnato l'Italia nella società e nel costume: "Non ho mai avuto un padrone, uno stipendio, sono sempr
Oggi alle 01:13 AM
Provocatore, rivoluzionario, anticonformista, divisivo per natura, irriverente. Ci vuole infornata di aggettivi per descrivere Oliviero Toscani, morto dopo un anno di malattia – l'amiloidosi, causata da depositi di proteine anomale nei tessuti e negli organi di tutto il corpo –, battitore libero che ha passato la vita a raccontare il mondo (e gli esseri umani) da un punto di vista anticonvenzionale. Il suo. Non è un caso libertà è stata una delle parole chiave del suo lessico: libero di imprimere un cambiamento nel mondo dell'arte, libero di scandalizzare e di innescare polemiche. "Se l'arte non provoca a cosa serve?", si domandava. Non una provocazione fine a se stessa, la sua, ma immaginata per sfidare i luoghi comuni, provocare cambiamenti, evoluzioni e nuove idee. A proposito delle quali, diceva: "Chi cerca idee non ne ha". Perché, secondo Toscani – milanese di nascita ma cittadino del mondo – "l'artista non cerca idee, fa quello che è capace rispetto a un problema che si trova di fronte". Per questo ha passato la vita a guardare il mondo, criticarlo, a farlo suo e a raccontarlo attraverso i suoi scatti.
IL PADRE E L’AMORE PER LE FOTO– La passione e l'istinto per la fotografia – come sottolineava ogni volta che ne parlava – lo doveva al padre, Fedele, uno dei primi fotoreporter del Corriere della sera, compagno di lavoro di tutti i grandi inviati, da Buzzati a Indro Montanelli (sono sue le famose foto di Montanelli con la Lettera 22 e quella di Mussolini e Claretta Petacci a testa in giù, a piazzale Loreto). "Gli devo l’istinto. Lo devo a lui e a mia madre, al suo gusto di ricamatrice", spiegò in un'intervista per i suoi 80 anni. Di mamma Dolores, morta a 92, diceva: "Mi ha dato forse trenta baci in tutta la sua vita. Nel Paese delle mamme possessive, protettive, ossessive, io ho avuto questa fortuna".
A ZURIGO COLTIVA LA SUA ARTE– Dopo una carriera scolastica altalenante, lui che – testardo e irriverente – allo studio preferiva il cinema, a vent'anni imbocca il grande bivio: pur non parlando una parola di tedesco, passa l'esame di ammissione all’Università d’arte di Zurigo e lì cambia tutto: "Avevo trovato la mia scuola". Studia con i più importanti artisti, grafici e fotografi del mondo, con insegnanti del calibro di Johannes Itten, il maestro del colore della Bauhaus, e grandi architetti come Le Corbusier. Del resto, l'arte si era intrecciata da subito con la sua vita, con episodi apparentemente marginali che invece lasciano in lui una traccia indelebile. Il primo a dieci anni, quando la sorella maggiore, che studiava all'Accademia, gli inviò delle cartoline con dei quadri di de Chirico. E poi ancora, a vent'anni, nel '62, durante il suo primo viaggio in America, quando entra in un museo e si ritrova, lui da solo nella stanza, dinanzi la Guernica di Picasso. "Quella visione per me è stata come la Madonna di Lourdes per un credente".
CORTEGGIATISSIMO DAI MAGAZINE– Ed ecco che la passione per l'arte si mescolano al talento, alla fortuna e al carisma e il successo gli esplode tra le mani, dopo il diploma alla Kunstgewerbeschule. Il bambino che rimaneva a bocca aperta davanti ai dipinti di una chiesa di Clusone, si ritrova corteggiato dai grandi magazine internazionali – Elle, Vogue, Harper's Bazaar: "gli unici che non mi chiamano sono gli italiani", disse una volta non senza polemica – e inizia il suo viaggio nella moda, mai guardando agli abiti come dei semplici prodotti da vendere o alle modelle come dei corpi, ma sempre come dei fenomeni sociali da guardare e poi raccontare. "Mai ho lavorato per mostrare quanto sono belli un’auto o un divano o un jeans", precisava, contestando dall'interno il modo di intendere la pubblicità ("ossessionata dal prodotto e dunque, come la politica, cerca il consenso").
LA FOTO È L’ULTIMA AZIONE– Per lui, come ripeteva spesso, "essere fotografo non è fare le foto". Per Toscani la foto era solo l'ultima azione che da compiere: "Prima di tutto bisogna essere autori. Tanti fanno i fotografi, ma sono in realtà degli 'schiacciabottoni', come diceva mio padre. Degli operatori alla macchina. Per me la macchina è soltanto una tecnologia che mi permette di esprimere quello che penso. Uno scrittore usa la scrittura, un musicista la musica, e io uso la fotografia".
I MARCHI E LE PUBBLICITÀ – L'"essere fotografo" era dunque molto di più dello schiacciare un pulsante e soprattutto, per lui, non ha mai significato stare agli ordini di un committente – magazine, brand o museo che fosse – o essere un mero esecutore. "Per essere considerato un autore devi essere uno sceneggiatore, uno scenografo, un regista, un direttore della fotografia e alla fine un cameraman". E lui autore lo è stato, ha sempre rimarcato la sua cifra, da esordiente sfrontato negli Stati Uniti oppure ideando e scattando campagne che cambieranno per sempre il modo di fare pubblicità, da quelle con Jesus Jean (iconico quel "chi mi ama mi segua" stampato sul fondoschiena ) a Fiorucci, da Valentino a Prenatal. Fino a quelle per il marchio Benetton, tra l'82 e il 2000, con cui si impone come il pioniere dello shockvertising, ossia quelle campagne di forte impatto per la crudezza dei temi o per la provocatorietà dei soggetti ritratti. Dall'iconica foto del bacio tra la suora e il prete a quella con la modella consumata dall'anoressia (la donna morì pochi anni dopo), da quella con i condannati a morte nelle carceri americane allo scatto che riprendeva un omicidio di mafia: tutti sono rimasti impressi nell'immaginario collettivo, hanno lasciato il segno e, spesso, sono finiti nei musei d'arte o hanno ottenuto riconoscimenti e premi internazionali.
CONTRO I PREGIUDIZI SU SESSO E RAZZA– Con le sue immagini ha precorso i tempi in campo sociale e ha squarciato il velo contro i pregiudizi, il razzismo, il sesso. Ha guardato al futuro, sperimentando e costringendo chi guardava (e guarda) una delle sue fotografie a riflettere. Lo ha fatto anche ai tempi di Fabrica con i Benetton (considerava Luciano Benetton uno dei suoi pochi amici veri assieme a Leonardo Zanier, Elio Fiorucci e Aldo Coppola, e di lui nell'ultima intervista ha detto: "Quando lavoravo in Benetton i veri nemici erano i manager. All'infuori di Luciano, tutti gli altri mi odiavano. Ora mi ha detto: 'Avevi ragione tu su di loro'") e di Colors, la rivista con la quale anticipò l’impegno su temi oggi attuali, dall'ambiente ai migranti, la violenza contro le donne.
AFFEZIONATO A “I BAMBINI RICORDANO”– Ma il progetto che lo ha rappresentato di più – lo ha confessato lui stesso – fu I bambini ricordano, una serie di ritratti ai sopravvissuti allo sterminio nazista di Sant'Anna di Stazzema del 1994, una sfida imponente, che l'allora sindaco gli chiese di affrontare per i sessant'anni dell'eccidio. "Risposi che non sarebbe stato possibile fare un reportage passati sessant'anni da un evento, senza nessun tipo di documentazione, e il sindaco mi disse: 'Se lei è così bravo come dicono, mi faccia vedere'". Allora Toscani, preoccupato ma al tempo stesso stuzzicato dal progetto, va nel bar del paese, incontra un uomo di nome Petri che gli racconta come fosse riuscito a sopravvivere allo sterminio di tutta la sua famiglia da parte dei tedeschi, e scatta la scintilla. "Nei suoi occhi vidi il film di quello che era successo e iniziai a fotografargli la faccia. Il progetto I bambini ricordano riunisce volti di persone che da bambini hanno vissuto quel momento e che oggi lo raccontano nuovamente, a ottant'anni". In quel lavoro, forse meno conosciuto di tanti altri, c'era tutta la sua passione per l'impegno civile (lui che si definiva "radicale, di sinistra e 'patriota': lo confesso, sono innamorato dell’Italia") e anche il gusto per il ritratto delle "persone comuni", non per forza famose. Tanto che, quando gli chiesero se gli sarebbe piaciuto fotografare Papa Francesco, rispose tranchant: "Per me non è più interessante di qualcun altro. Che sia famoso non mi dà un valore aggiunto. Preferisco scattare chi non è ancora famoso. Papa Francesco è una maschera. Le persone famose sono delle maschere".
TUTTI I VIP AMANO OLIVIERO – Eppure la carrellata di famosi – incontrati, conosciuti, amati, detestati, frequentati – era lunga e variegata e comprendeva tra gli altri Andy Warhol, Lou Reed, Pannella, i Måneskin (ancora esordienti) e Muhammad Ali, suo mito vero, tanto che una dei suoi figli la chiamò proprio Alì.
LA FAMIGLIA ALLARGATA – A proposito di famiglia, quella dell'iconico fotografo è decisamente "allargata": ha avuto sei figli da tre donne diverse, ha 14 nipoti ed è stato legato per cinquant'anni alla stessa donna, Kirsty Moseng, la modella norvegese che prima ha fotografato e poi ha sposato. "Dopo averla vista dissi alla mia ragazza di allora 'questa sarà mia moglie", raccontò. Fece scalpore, nel 2018, la lettera al vetriolo che la figlia Olivia (nata dal legame con la svedese Agnete) scrisse al Corriere della Sera per contestare un'intervista del padre: "Non l'ho più visto dall'età dei miei quindici anni, quando sono andata via dalla nostra casa a Casale Marittimo per i continui maltrattamenti psichici e per i ricatti che costantemente manifestava con violenza e aggressività, sia contro di me, sia contro mia madre, Agneta, la sua prima moglie con cui ha avuto due figlie". Parole durissime, anche se il rapporto sembrerebbe essere poi migliorato, come ha precisato Toscani nell'intervista in cui ha rivelato la malattia: "Olivia è in rotta con tutta la famiglia: la sera ti dice ti voglio bene e il giorno dopo ti manda una mail feroce. Ci sono rimasto molto male quando l'ho letta perché ha detto cose non vere. Comunque anche lei è venuta a trovarmi all'ospedale, due volte".
LA DURA MALATTIA E LA SENTENZA – Insomma, la famiglia si è ricompattata da quando, nell'estate del 2023 Toscani ha scoperto di essere malato di amiloidosi, una malattia rara che prova il deposito delle proteine su certi punti vitali, provocando il blocco del corpo. "E si muore. Non c'è cura", ammise Toscani, sottolineando di non avere paura della morte: "Basta che non faccia male. E poi ho vissuto troppo e troppo bene, sono viziatissimo. Non ho mai avuto un padrone, uno stipendio, sono sempre stato libero". Ritorna dunque di prepotenza la parola libertà, ciò che l'ha sempre guidato assieme all'istinto ("non ho fatto scelte consapevoli, ma sempre d’istinto. L’istinto è il mio radar"). Un combinato disposto che gli ha permesso di diventare uno dei più grandi fotografi del ventesimo secolo. Definizione che probabilmente avrebbe detestato, tanto che non gli interessava nemmeno pensare a come sarebbe stato ricordato dopo la morte: "Mi interessa essere ricordato dai miei figli e dai miei nipoti come una persona onesta. Che non vuol dire uno buonino a cui va bene tutto, ma anche come una persona con delle prese di posizione, che ha portato avanti delle battaglie, ma che nello stesso tempo ha sempre creduto fino in fondo a quello che faceva". E lui chi ha creduto, senza dubbio.
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