Caso Ramy, a Torino le cariche contro la polizia catalizzano l'attenzione: coi 'maranza' chi parla?

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Ma con i "maranza" chi ci parla? Nelle cronache che oggi raccontano la manifestazione svoltasi ieri a Torino si fa riferimento a centinaia di giovanissimi "maranza" che si sarebbe uniti al corteo.

Prima di arrivare ai "maranza" bisogna che faccia due passi indietro. A monte c'è la morte di Ramy a Milano, c'è l'indignazione generata dalle parole pronunciate dai carabinieri che inseguivano lui e il suo amico, lo sgomento del padre di Ramy ("Ma non hanno dei figli?"), la "sproporzione" inaccettabile denunciata dallo stesso Gabrielli tra uno scooter che non si ferma e la decisione di fermarlo speronandolo, c'è a monte un disagio profondo soprattutto giovanile, fatto di frustrazioni e marginalità, impastato di tanti ingredienti. Troppi per questo spazio.

Ieri sera la manifestazione, che raduna migliaia di giovani (fatto che andrebbe apprezzato di per sé), degenera in assalti violenti contro gli uffici della Polizia di Stato alle Porte Palatine e contro la caserma dei Carabinieri "Bergia" in piazza Carlina. Ancora una volta l'attenzione viene "sequestrata" proprio da queste condotte e i commenti come al solito si aprono a ventaglio tra chi stigmatizza unicamente la gravità della violenza contro le Forze dell'Ordine, invocando daspi urbani, pugno di ferro, zone rosse, e chi, pur condannando le violenze, non perde di vista le ragioni di coloro che hanno manifestato (e non le ragioni di chi ha usato la violenza. Corre una bella differenza).

Tutto ciò premesso. Penso che nessuna persona intellettualmente onesta creda che la questione possa essere ridotta alla "violenza": la violenza dell'abuso di potere, la violenza di piazza. Soltanto coloro che costruiscono consenso sulla degenerazione violenta del conflitto sociale possono tentare questa semplificazione: ma non le considero persone oneste. In più penso che a quelle "centinaia di maranza" arrivi poco di questo dibattito e importi ancor meno.

E così torno a questi benedetti "maranza" che sono una specie sociale mutante nel tempo, ma con tratti identificativi profondi che restano invariati. Oggi i "maranza" son quasi "paranza", ma pure ieri non scherzavano. A me l'incontro con i "maranza" più di trent'anni fa ha cambiato la vita, per sempre. In meglio. Ero uno sprovveduto giovane animatore di una parrocchia torinese, si avvicinava la Pasqua (credo quella del 1993) e come da tradizione avevamo organizzato una processione per le vie del quartiere: canti, candele, preghiere. Per i "maranza" una occasione imperdibile per prenderci allo scoperto, fuori dall'oratorio. Ne fecero di tutti i colori per "sabotare" la processione: scooter che impennavano, petardi, urla, spintoni. Io non sapevo che fare. Ad un tratto dal nostro gruppo di animatori si staccò un certo Marco, poco più grande di me, che aveva già cominciato a lavorare in quartiere seguendo un metodo nuovo, portato da un prete operaio, lo chiamavano "animazione d'ambiente", aveva a che fare con un certo Joseph Cardijn che ai primi del Novecento in Belgio era solito dire: "un giovane lavoratore vale più di tutto l'oro del mondo" (le mille vite della critica, radicale, al capitalismo!). Ebbene questo Marco in cinque minuti riportò la calma. Non aveva alzato le mani e nemmeno la voce: li aveva chiamati per nome. Li conosceva, tutti. Chi li conosce oggi questi "maranza"?

Sicuramente in una città ricca di energie socialmente impegnate come Torino in tanti alzeranno la mano: insegnanti prima di tutto che oggi presidiano la "frontiera" più combattuta ed estenuante, operatori sociali, psicoterapeuti che raccolgono il dolore "di dentro" sempre più diffuso… E' necessario però che "chiamare i maranza per nome" diventi una priorità della politica pubblica, almeno di quella costituzionalmente orientata, di quella che intende il proprio compito in continuità con quello emancipante della lotta di liberazione al nazifascismo, che nel 2025 compie ottant'anni.

Sotto ogni identità collettiva, dai "maranza" agli "italiani", identità che sono spesso fomentate strumentalmente o imposte violentemente, che diventano salvagente al quale aggrapparsi o maledizione a cui ribellarsi, stanno sempre identità personali, spesso negate, frustrate, umiliate. Ripartire da queste è la chiave del futuro. Costa, certo, ma costa infinitamente di più armare la segregazione sociale e sperare di strappare un biglietto per Marte.

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