Oggi esiste solo la tecnocrazia, ma pensare è l'unica cosa che ci può salvare dal disastro

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Negli ultimi due secoli il meraviglioso pensiero scientifico si è affermato e si è evoluto portando progresso all'umanità. Basato sulla ricerca, sul metodo, sulla verifica dei fenomeni, il pensiero scientifico ha smantellato superstizioni e ha posto le basi dell'accelerazione straordinaria dell'evoluzione umana. Accanto a lui, non è andata altrettanto bene al pensiero umanisticofilosofico, che è stato gradualmente emarginato, fino all'abbandono. Ma i due approcci alla vita dell'uomo facevano due lavori del tutto diversi, e anzi, il bilanciamento tra pensiero scientifico e pensiero filosofico garantiva all'uomo di poter procedere in modo equilibrato mentre cresceva: uno nell'affrontare tutte le sfide esistenziali e etiche in una visione rotonda dell'umanità; l'altro nel consentirgli di capire se e come fosse possibile evolvere le potenzialità pratiche della vita dell'uomo. In particolar modo, nel '900, una delle branche del pensiero scientifico, certamente non umanistico-filosofico, cioè l'economia, ha preso ancor più spazio di altre (così come era stato vaticinato da Karl Marx) diventando preminente.

Dunque, ricapitolando: volare non è questione filosofica, serviva la fisica dei flussi, quella dei materiali, e imparare a costruire un aereo. Ma usare quell'aereo per lanciare bombe è tema su cui la scienza non può contribuire, come sapeva bene Einstein, servono semmai la cultura, la storia, la filosofia e l'etica. Solo che se un Paese ha risorse energetiche e l'altro no, l'economia può suggerire cose sconsiderate riguardo quell'aereo, quelle bombe e quel Paese.

Ecco come arriviamo ai nostri giorni, dove il mondo sembra travolto da una delle sue fasi storiche di maggior incertezza e instabilità. Lo vediamo in ogni ambito, dalle guerre, alle feroci battaglie commerciali, e fino alla caduta degli argini su argomenti fino a ieri ancora intoccabili, come lo ius soli americano, la sovranità degli altri Paesi, il rischio di disastri nucleari, l'accoglienza, il GreenDeal. Il tutto mentre terribili depressioni atlantiche sul modello tropicale minacciano l'Europa, a riprova estrema che anche sul fronte ambientale le cose peggiorano, a dispetto dei proclami revisionisti dei nuovi demiurghi.

Sembra a molti di noi che gli anni a venire presentino solo tragiche incognite. Che sta succedendo alla civiltà umana? Cercando di vedere le cose col dovuto distacco, sembra che i nodi di una certa cultura egemone stiano venendo al pettine. Una cultura che, nel tempo, ha del tutto soppiantato, per la prima volta dal VII secolo a.C., l'approccio speculativo filosofico e umanistico: quella tecnocratica. È a questo credo dominante ormai privo di antagonisti che è demandato oggi il compito di analizzare gli interrogativi dell'umanità. Cosa che, naturalmente, non è organizzato per fare. Forse le scoperte scientifiche e le applicazioni tecnologiche, così rapide e violente, almeno nell'ultimo secolo, hanno prodotto una generale ubriacatura, convincendoci tutti che a ogni cosa c'è soluzione tecnica, basta cercarla. Ed è questo il pensiero tecnocratico: il pensiero binario on/off, baco/patch, perfetto per fare organizzazione, produzione, commercio, o per cercare soluzioni in emergenza, ma tragico per affrontare la vita dell'uomo, le sue scelte individuali e comunitarie. Il suo destino.

Anche perché il pensiero tecnocratico, quello della fiducia estrema nelle soluzioni veloci, pragmatiche, in cui per ogni problema basta inventare una pillola mirata, è perfetto per misurare e aumentare, ma non per capire e accorgersi, per stabilire ciò che non va fatto in quanto osceno e rischioso. E si tratta della prima vera rivoluzione intellettuale dai tempi di Socrate, perché chiunque cambi le risposte non è mai un rivoluzionario (semmai un innovatore) mentre lo è chi inventa o cambia le domande. Quelle che con il pensiero tecnocratico non sono più sul senso della vita, ma relative al modo in cui risolvere i problemi del presente, nella certezza delle infinite e taumaturgiche potenzialità offerte dalla scienza e dalla sua giovane, brillante e affascinante nipote: la tecnologia.

Intuito da Husserl, compreso a fondo e annunciato da Heidegger negli anni Cinquanta, si realizza oggi definitivamente, nel nuovo Millennio, il pieno compimento della cultura del calcolo e della misurazione, che non sa più distinguere cosa sia buono, bello e giusto. Solo ciò che è utile. E la filosofia che fine ha fatto? Senza che nessuno se ne abbia a male, e consapevoli del rischio di generalizzazione, occorre osservare che i più acuti e colti pensatori contemporanei, salvo rari casi, operano oggi soprattutto una rilettura dei classici, cioè ci spiegano con lo sguardo del presente le ragioni di Socrate e Nietzsche, Democrito e Heidegger, rileggono e attualizzano per noi Lucrezio, Wittgenstein, Spinoza, Russell, Bruno. Solo che questo non è fare filosofia, è occuparsi di filosofia. Cosa preziosa, essenziale, benemerita, ma molto diversa.

E soprattutto, a furia di studiare i classici, abbiamo smesso di fare quello che facevano Talete, Anassimandro e Socrate, cioè i primi filosofi, che non avevano niente da rileggere, perché la filosofia la stavano inventando: farci le domande giuste, mettere in fila le faccende umane per rischio e importanza. Pensare non al problema ma alle cause, e non alle soluzioni ma alle conseguenze. Cioè fare filosofia. Pensare. L'unica cosa che avrebbe potuto evitare di trovarci così nei guai oggi. E l'unica che ci possa salvare.

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