
Scagionato dall'accusa di un quadruplice omicidio dopo 47 anni di carcere: la storia dell'ex pugile Hakamada, condannato a morte. Per lui 1,4 milioni

03/26/2025 06:29 AM
Quarantasei anni trascorsi in una cella, gran parte dei quali nel braccio della morte, con l’ombra dell’esecuzione che incombeva ogni giorno. Una vita sospesa, rubata da un’accusa infamante: quella di un quadruplice omicidio avvenuto nel 1966. Oggi, finalmente, Iwao Hakamada, 89 anni, è un uomo libero e innocente, ma porta addosso i segni indelebili di un’ingiustizia che lo ha reso il detenuto nel braccio della morte più longevo al mondo. E mentre la giustizia giapponese cerca, almeno in parte, di rimediare al suo errore con un risarcimento record di 217 milioni di yen (circa 1,4 milioni di dollari), la sua storia scuote le coscienze e riapre il dibattito sugli errori giudiziari e sulla pena di morte.
La Corte distrettuale di Shizuoka, la stessa che lo aveva condannato nel 1968, ha stabilito a settembre 2024, al termine di un nuovo processo, l’innocenza di Hakamada, riconoscendo che gli investigatori avevano manomesso le prove e che l’uomo aveva subito “interrogatori disumani volti a costringerlo a rilasciare una confessione”, poi ritrattata. Una confessione estorta, secondo i suoi avvocati, con metodi brutali: interrogatori per un totale di 264 ore, spalmate su 23 giorni, con sedute che potevano durare fino a 16 ore, durante le quali gli veniva negata l’acqua e la possibilità di andare in bagno. Hakamada, ex pugile professionista che all’epoca lavorava in un’azienda produttrice di miso, fu arrestato con l’accusa di aver ucciso il direttore generale della società, la moglie e i loro due figli, trovati morti nella loro casa dopo un incendio, il 30 giugno 1966. Le prove a suo carico erano deboli: una piccola quantità di sangue e benzina trovata su un pigiama di sua proprietà.
Nonostante i dubbi, la condanna a morte arrivò nel 1968, confermata dalla Corte Suprema nel 1980. Per 47 anni e sette mesi, Hakamada ha vissuto nell’attesa dell’esecuzione, fino al marzo 2014, quando nuove prove sollevarono dubbi sulla sua colpevolezza, portando alla riapertura del processo e alla sua scarcerazione. Ora, a quasi 90 anni e con le capacità cognitive profondamente compromesse da decenni di isolamento e dalla costante paura della morte, Hakamada riceve il risarcimento più alto mai concesso in Giappone per ingiusta detenzione. Un risarcimento calcolato in base al Criminal Compensation Act, che prevede fino a 12.500 yen (circa 83 dollari) per ogni giorno di detenzione. Ma, come sottolineano i suoi avvocati, nessuna cifra potrà mai ripagare una vita spezzata. Il team legale di Hakamada ha definito il denaro “insufficiente per il dolore che ha sofferto”, citando “l’entità incommensurabile del danno subito mentalmente e fisicamente, e anche per essere stato sotto la paura della pena di morte”.
Hakamada è il quinto condannato a morte a cui è stato concesso un nuovo processo nella storia del Giappone del dopoguerra. E, come lui, anche gli altri quattro sono stati scagionati. Un dato che fa riflettere sul sistema giudiziario giapponese e sulla possibilità di errori irreparabili, soprattutto quando è in gioco la vita umana. La sua odissea è stata riconosciuta anche dal Guinness dei primati.
L'articolo Scagionato dall'accusa di un quadruplice omicidio dopo 47 anni di carcere: la storia dell’ex pugile Hakamada, condannato a morte. Per lui 1,4 milioni di risarcimento proviene da Il Fatto Quotidiano.